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ubbidendo alla sua natura buona e generosa, ella andò a lui, nella pace fredda del grande salone e lo pregò che le perdonasse. Si umiliava, tutta confusa, sentendo sempre più grande farsi la lontananza fra loro, cercando, con la bontà, con la pietà, di riavvicinare le loro anime, nuovamente. E lo vide tremare, come essa tremava, di dolore, di tenerezza, di compassione: egli le carezzò lievemente i capelli, con quel moto affettuoso, famigliare, aggiungendo qualche vaga parola di conforto: e l’uno voleva consolar l’altro, a forza, come di una grande sventura ignota, di cui nessuno dei due voleva pronunziare il nome. Nell’ombra del salone che solo la vampa del caminetto spezzava, gittando spruzzi sanguigni di luce sul vecchio tappeto veneziano, essi si tenevano per mano, frementi di dolore, balbettando incerte parole di consolazione e sembravano, insieme, in quell’ora bruna, in quella camera, la rovina di una grande cosa, i superstiti di un naufragio dove tutto avessero perduto.

      Nè il sole novello, nè le miti giornate di ottobre, nè gli sforzi dei loro cuori coraggiosi e onesti, nè la paura della catastrofe che vedevano avvicinarsi e pure volevano scongiurare, potevano ridonare a Grazia e a Ferrante, ciò che era irreparabilmente fuggito. Ancora per vari giorni Venezia che tanti amori e tanti amanti ha visti e dovrà ancora vedere, per vari giorni la soave città languente di morte, vide questi due amanti nelle sue calli, nelle sue piazze, nelle sue chiese, sempre insieme, tenendosi sempre per mano, come se volessero comunicarsi un fluido che li legasse per sempre, come se volessero vincere un potere ignoto che aspirasse al dissolvimento. Incapaci di reggere alla solitudine della loro stanza segregata, della loro casa così piena di tristezza, incapaci di prolungare un dialogo solitario senza che li conducesse, istintivamente, inconscientemente, a una fatale conclusione, essi cercavano di mettere il mondo esteriore fra loro, desiderosi di quanto potesse distrarre i loro occhi e le loro anime. Quella semplice e bonaria vita esterna veneziana, li seduceva, non in sè, ma perchè li toglieva alla tetra domanda della loro coscienza; le lunghe stazioni sotto le Procuratie, innanzi ai piccoli tavolini del caffè Florian, dove si ripetono, meno ingenue e meno piacevoli, le scene goldoniane; le lunghe stazioni, in piazza, guardando il volo dei colombi che discendono a mangiare il miglio, buttato dalle candide mani di una fanciulla inglese, ammalata di nostalgia e di anemia; le lunghe stazioni nella basilica dove, sotto le arcate che pare abbiano profondità infinite, i lumicini delle lampade moresche brillano innanzi alle sacre immagini cristiane, innanzi ai santi e alle sante dalla faccia nera e dal vestito di argento; le lunghe stazioni sulla riva degli Schiavoni, nell’ora del tramonto, in una luminosità così fine, così trasparente che nessun paese possiede, che nessun poeta ha saputo descrivere e nessun pittore dipingere; le lunghe passeggiate per le straduccie strette che sembrano corridoi di una immensa casa, la compra di gingilli, di ricordi nelle microscopiche botteghe di Merceria e di Frezzeria; le lunghe contemplazioni artistiche nei musei e nelle gallerie, innanzi ai capolavori umani e divini di Carpaccio e di Gian Bellino, del grande Paolo e del superbo Tiziano. Qui erano più lunghe e intanto più pericolose le loro dimore, poichè la sublime arte veneziana è così fatta di amore supremo e di amore terreno, che è impossibile non amare o non parlare di amore, per essa. Queste manifestazioni così potenti della passione, mentre li attraevano, li lasciavano turbati sino agli strati imi del cuore. Più di una notte, levandosi nella veglia affannosa, uscendo dalla sua stanza nella bianca vestaglia come un fantasma che non avrà mai requie, Grazia andava fino alla porta della stanza di Ferrante e sentiva che anche lui vegliava, passeggiando, fumando, schiudendo la sua finestra per guardare il negro Canal Grande. Due volte sentì che egli scriveva, che scriveva tanto concitatamente che la penna strideva sulla carta. E a chi scriveva? Ella non osò mai chiamarlo, mai chiederglielo. Due volte Ferrante era uscito, solo, forse per impostare queste sue lettere; mai era giunta una lettera di risposta. L’angoscia che li ardeva, adesso, non era più che dolorosa: era una vampa che li consumava in una lotta contro un nemico sconosciuto che prendeva sempre più terreno, che ogni giorno guadagnava una piccola o una grande battaglia; era una fiamma che li devastava da cima a fondo, facendo il vuoto in essi, senza che le lacrime alla tenerezza valessero a smorzarne l’incendio. Nè l’uno diceva all’altro il segreto di queste veglie ardenti e desolate; ma ognuno lo indovinava questo segreto, sul volto dell’altro, senza parlare, anzi temendo di parlare. Ancora camminavano accanto, nella vita, tenendosi per mano: ma a un motto, a un gesto, tremavano di veder sparire l’amata figura daccanto. La solitudine, la solitudine a cui nessun segreto resiste, la solitudine che risolve a rilento o bruscamente tutti i grandi problemi morali dello spirito, era quella che li sgomentava. Avevano deserta la casa, ora. Un giorno, sul finire di ottobre, non sapendo dove portare il loro bizzarro tormento, s’imbarcarono sul vaporetto che porta all’isola del Lido, un’isola tutta verde, piena di piccole ville, che da una sponda dà sulla laguna, sul mare immobile, dormiente, dall’altra sponda sullo squillante, fragoroso, tempestoso Adriatico. È su quella sponda che si erge il bello stabilimento di bagni marini, dove accorre tutta Venezia e vengono italiani da tutte le parti, e anche stranieri, tanta è la gaiezza estiva di quel ritrovo. Ma nulla è più stranamente malinconico della città di svernatura al mese di agosto, e delle spiaggie di bagni quando l’estate è fuggita via, da tempo. I viali dell’isola erano deserti e il piccolo tramvai andava e veniva, pian piano, vuoto, tanto per fare le sue corse di quel giorno. Lo stabilimento aveva tutte le porte dei suoi camerini aperte; alcune sbattevano contro le pareti, per il vento forte del mare, le onde schiumavano rabbiose contro i pali, frangendosi. Nel grande salone-terrazza, non un’anima; solo il custode sonnecchiava nel suo casotto, malgrado il cattivo tempo. Grazia e Ferrante andarono ad appoggiarsi alla ringhiera, guardando quel grande mare burrascoso che li aspergeva di minute stille gelide. A un tratto una voce amica li riscosse dalla triste contemplazione: un altro solitario era, colà, un amico di entrambi, un gentiluomo meridionale, cuore profondo sotto apparenze un po’ leggiere, un po’ scettiche. Era il solo che aveva intravveduto la loro passione: e trovandoli colà non mostrò nè meraviglia nè freddezza. Per una stranezza Grazia e Ferrante oppressi dalla solitudine e dalle loro segrete torture morali, per quanto prima avevano odiato ogni contatto umano, per tanto in quel giorno furono contenti di trovare quell’amico, quel terzo. E la conversazione, sui banchi umidi di salsedine del vuoto stabilimento, fu insolitamente cordiale, come se un misterioso vincolo legasse spiritualmente quelle tre persone. E anche Giorgio, il gran signore ricercato dei balli e delle caccie, lontano da Roma, in quel posto così deserto, in quella giornata di temporale, pareva avesse dimenticato il suo leggiadro scetticismo, pareva che una nota più sentimentale, più tenera, vibrasse nel suo cuore e nella sua voce. Grazia che lo conosceva da anni glielo disse.

      – È il contagio – disse Giorgio, con una velatura di sorriso.

      – Della persona? – gli domandò Ferrante, serio serio.

      – Anche. Ma è Venezia, sovra tutto. Io non posso ritornare in questo paese, senza sentir rinascere in fondo al cuore tutte le onde soffocate di tristezza.

      – Anche voi? – mormorò Grazia, abbassando gli occhi.

      – E perchè ci vieni? – chiese Ferrante. – Perchè scavare in sè questi strati così amari? I saggi sanno dimenticare.

      – Sei un saggio, tu? – gli chiese ironicamente Giorgio.

      – No – fece l’altro, con un senso di umiltà nella voce.

      – E io neanche. Ogni anno vengo qui per un pellegrinaggio…

      – Religioso? – chiese Grazia.

      –… pietoso – rispose Giorgio. – Quando la vita esteriore più mi ha inaridito tutte le fonti del sentimento, quando più mi sento un freddo egoista capace di sacrificare tutto al mio piacere, quando più mi corrode la pazza vanità e la folle ambizione, allora io lascio Roma, lascio Parigi, lascio Londra e vengo qui, solo, a guarirmi, a diventar più umano, più buono. Voi ridete di me, forse?

      – No, non rido – soggiunse Grazia, pensosa, guardando il mare coperto di bianca spuma.

      Ferrante taceva, pensando.

      – Venezia mi contrista e mi guarisce – disse il bel gentiluomo, con la contrizione di un penitente, passandosi la mano sulla fronte, a scacciarne le ombre che la offuscavano.

      Stettero in silenzio, tutti tre: ognuno era preso dal proprio pensiero e il mare mugghiante accompagnava i voli di quelle fantasie. Fu Ferrante che si risolse a rompere il silenzio per il primo, sospirando

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