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per mettervi ad asciugare delle matasse di seta tinta, si fermò nel suo lavoro, facendo solecchio con la mano, per vedere se quei signori se ne andavano.

      – Andiamo via, non disturbiamo questa buona gente – disse Grazia.

      – Sono poco abituati ai forestieri: il Cannaregio è un quartiere di poveri, di operai – rispose Ferrante.

      La barca si allontanò, mentre, alle spalle, ricominciava l’allegro brusìo del dialetto, ricominciava il ticchettìo degli zoccoletti sulle fondamenta di pietra levigata, ricominciava la canzone costantinopolitana della Strega. Andarono innanzi molto tempo, incontrando pochissime gondole, trovandosi a un tratto in un largo canale deserto: un canale così vasto, così torbido nelle sue acque immobili, così malinconicamente intonato che donna Grazia, per vincerne l’impressione, ne chiese il nome al gondoliere.

      – È il Canale Orfano, eccellenza.

      E la gran leggenda tragica, che era durata, sinistra e tetra, per centinaia di anni, la leggenda di tutti quei condannati, innocenti o rei, che dopo aver agonizzato per giorni e mesi nelle carceri soffocanti della Repubblica, in una notte oscura, facevano l’ultimo loro viaggio sotto il felze opprimente della gondola, per essere strangolati tacitamente e gittati nelle acque profonde del Canale Orfano, si parò innanzi alla fantasia dei due amanti, con tutti i fremiti di sgomento che tale visione truce può dare.

      – Il fondo deve essere coperto di scheletri – disse donna Grazia, guardando fissamente l’acqua.

      – Torniamo indietro – soggiunse Ferrante con voce alterata.

      Tornarono: e come il gondoliere affrettava il movimento dei suoi remi, donna Grazia gli fece cenno, con la mano, di far piano: pareva che temesse di disturbare quei morti. Ancora, silenziosi, vogarono per i canali, muti, quasi stanchi, non guardandosi neppure. Il movimento della gondola, a lungo, li gittava in un intorpidimento di tutti i sensi; tanto che neppure l’ora fuggente aveva più valore per essi. Canali seguivano canali: l’acqua era, dove verdastra, dove bigia, dove semplicemente torbida, dove con un’opaca oscurità di carbone: palazzi seguivano i palazzi, portoni pesanti chiusi come da secoli, gradini corrosi dalla salsedine, alti pilastri piantati nelle acque per legarvi le gondole e che s’inclinavano come se fossero presi da una inguaribile debolezza, finestre senza cristalli, ma le cui imposte verdi sembravano sbarrate per sempre. Ogni tanto un monastero, una chiesa, una bottega d’infilatrice di perle; di nuovo portoni chiusi a catenaccio e finestre serrate sino all’ultimo piano. La linea era pura, bella, artistica: la poesia che traspirava da tutto l’ambiente era grande, ma portava un profumo di fiori morti. E i due cadevano in un languore di mestizia che ne domava ogni entusiasmo, che ne annullava ogni impeto di vitalità.

      – Qui, dicono fuggisse Bianca Cappello, per andarsene con l’amante a Firenze – disse Ferrante indicando una finestra bassa di un grande palazzo.

      – Oh!… – fece Grazia, senza aggiungere altro.

      E dopo un poco, sogguardando l’uomo che amava, facendo cadere le parole, ad una ad una, gli chiese:

      – Tu sei stato un’altra volta, a Venezia?

      Egli intese la profondità della domanda e il pericolo della risposta: una rapida emozione gli scompose il volto. Ma fu incapace di mentire.

      – Sì: un’altra volta – rispose nettamente, buttando nel canale la sigaretta spenta.

      –… Molto tempo fa? – aggiunse ella, con la freddezza e la tenacità di un giudice che interroga.

      –… Non molto.

      Ella tirava, macchinalmente, ad una ad una, le violette dal mazzolino che teneva nelle mani e dopo averle fatte girare intorno al dito, le buttava in acqua, seguendole un momento con l’occhio. Poche ne rimanevano, smorte, quasi appassite nella larga foglia verde che le accartocciava, penzolanti sugli stelucci.

      – Eri solo? – finì d’interrogare lei, sempre tenendogli piantati gli occhi sul volto.

      Egli non rispose, nè prima, nè dopo, sentendo la crescente crudeltà di quel dialogo. Non rispose e volse il capo altrove. Allora ella, con l’aria di una persona perfettamente convinta, guardò un’altra volta le sue ultime violette e con un atto risoluto, le buttò in laguna, tutte. Ostinatamente, per nascondere il rivolgimento del suo spirito, egli guardava dall’altra parte; e anch’essa si mise a fissare un punto qualunque dell’orizzonte. Una brutta gondola passò: le finestrine del felze, senza i soliti delicati ornamenti di ferro lucido, erano chiuse coi lucchetti, come una cassa forte. E sulla porticina del felze, a guardia, stavano seduti due carabinieri in tenuta di viaggio e coi fucili fra le gambe, immobili, in quell’attitudine seria, pensosa, che dà loro come una nova aureola di rispetto. Era la gondola del carcere che avendo preso alla stazione i carcerati e i carabinieri, li conduceva per la laguna, alla tetra dimora. Grazia seguì con l’occhio il nero convoglio filante sulle acque; poi abbassò il capo sul petto, reprimendo le ardenti lacrime che le salivano agli occhi. Fu più innanzi, in un canale laterale che si lega al Canal Grande nel sestiere di Dorsoduro, che incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta; si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino.

      – Che è quella gondola? – disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi.

      – È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini.

      – Andiamo via, andiamo via, Grazia – disse Ferrante rompendo il silenzio, dolcemente, volendo infrangere il malo incantesimo di quella giornata.

      – No, no, voglio vedere – disse lei, duramente – gondoliere, fermati un poco.

      – È meglio andare, cara, è meglio – ribattè lui, umilmente, crollando il capo.

      Ma ella non gli dette retta. In piedi, appoggiata al divanetto di destra, guardava nel portoncino nero, donde arrivava un confuso mormorio.

      – Voglio vedere questo morto – disse a sè stessa, senza distogliere gli occhi dal portoncino.

      E quasi la sua anima desiosa di dolore, avesse avuto una forza magnetica, un tumulto si fece nell’ombra del portoncino, e fra un piccolo gruppo di donne e di uomini, portata da due altri becchini, comparve la bara; dietro le persiane di una finestra, al primo piano, si udiva un singhiozzo disperato e si vedeva una mano convulsa che tentava di aprirle, mentre qualcuno si opponeva, tenendole ferme. Questi volevano vedere la bara, che veniva caricata nella gondola funeraria: la piccola bara, la sottile bara, poichè era la bara di un bambino, e lassù, era certamente la madre del bimbo che singhiozzava e tentava disperatamente di aprire la finestra. A un tratto, con un moto svelto di gente pratica, i becchini gondolieri ficcarono la piccola bara sotto il felze e ne richiusero con un colpo secco la porticina. Il picciolo morto era solo, là sotto. Ai quattro lati del felze furono sospese delle povere e pallide corone di sfatti crisantemi, che una fanciulla piangente in silenzio aveva porto ai becchini.

      – Andiamo via, presto, presto – disse nervosamente Grazia al gondoliere, ricadendo a sedere sul divanetto.

      A un tratto era stata presa dall’orribile paura di dover fare la stessa via del morticino; e soggiungeva, mentre si allontanavano, senza voltare il capo indietro, presto, presto. Alle spalle il singhiozzo della persona che si disperava dietro la gelosia si era fatto più forte, più alto: la barca funeraria si metteva in moto. Ma era così lenta, che la gondola di Grazia e di Ferrante scomparve subito. Quando ebbero camminato per un pezzo, allora soltanto ella si voltò a guardare Ferrante, ma lo vide così travolto, così pallido, che ne ebbe orrore e pietà. E dopo un minuto di intensa riflessione, ella intuì, ella indovinò il pensiero di lui:

      – Tu pensi al tuo bambino? – gli disse, sottovoce, nella faccia.

      Ah, questa volta, questa volta, egli non ebbe il coraggio di negare: disse di sì, semplicemente, senz’altro. Ed ella,

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