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La continua memoria che ho di lei, e quel ritratto, che mi sta nel cuor dipinto per man di amore col pennello della imaginazione, sta piú vivo nel mio core, che non ci sta l’anima istessa: ragionando io con lei ed ella meco, ci raguagliamo e dogliamo insieme delle miserie nostre.

      Balia. Almeno passate di lá.

      Erotico. Se non ci passo col corpo, ci passo con l’animo mille volte; e quanto è miglior l’animo del corpo, tanto è piú degna quella vista di questa.

      Balia. A dio.

      SCENA III

      Erotico, Attilio, Trinca.

      Attilio. Ecco, l’abbiam pur trovato al fine.

      Erotico. (Non ci è piú fede al mondo, non si trova piú uomo di cui possa fidarsi. Al tempo d’oggi la fede è ritrovata per ingannar la fede. Ma io vo’ tradir e ingannar ciascuno, poiché ciascuno cerca tradir e ingannar me).

      Attilio. Parla da sé solo.

      Trinca. Come quello che sta ne’ travagli dove tu sei.

      Erotico. (Vo’ andarmene in qualche isola diserta, per non esser ingannato da uomo piú. Sulpizia farsi d’altri, eh?).

      Trinca. Forse che parla d’altro?

      Attilio. Come amor entra in un cuore, ne scaccia ogni altro pensiero, perché vuol regnar solo.

      Erotico. (Ma Idio non mi dia cosa che desio, se non ne farò vendetta tale, qual merita il mio dolore e la rabbiosa gelosia).

      Trinca. Salutatelo.

      Attilio. Signor Erotico, buon giorno.

      Erotico. (Mi dá il buon giorno chi desia darmi il malanno. Ma sará ben che gli parli; ché, se non posso impetrar da lui che la lasci, impetrare almeno che la lasci per qualche giorno). Idio vi salvi, signor Attilio.

      Attilio. Come state?

      Erotico. Tal che non posso trovar modo per dolermi del mio dolore.

      Attilio. Di che vi dolete?

      Erotico. Che non si trova piú fede né amicizia, perché un che mi credea fidel amico, sotto color d’amicizia m’ha tradito e assassinato.

      Attilio. Costui sará il piú tristo uomo del mondo.

      Erotico. Tal lo stimo io.

      Attilio. Ditemi, di grazia, chi sia il traditor di fede e assassino d’amici, che prometto farne la vendetta per voi.

      Erotico. È vostro grande amico.

      Attilio. Tanto piú dovete manifestarlomi, accioché possa guardarmi da lui.

      Erotico. Fareste ben a farlo, perché è ragionevole e debito vostro.

      Attilio. Come si chiama?

      Erotico. Attilio. E voi sète quello che mi tradite e assassinate, e mi fate il peggior officio che possa farsi; e avete un gran torto.

      Attilio. Avete voi torto maggiore aver una tal stima di me – e io vi compatisco, perché sète fuor di voi stesso – perch’io son lealissimo con gli amici.

      Erotico. Ma vi prego per quella cara amicizia, che un tempo fu sí perfetta e incorrotta fra noi, che mi siate cortese di quello ch’è mio, per rigor di giustizia e per debito di amore…

      Attilio. Io non intendo il vostro parlare: o ch’io sia troppo goffo o che voi non esprimete bene il vostro concetto.

      Erotico.... che non prendiate Sulpizia per consorte.

      Attilio. Deh, caro Erotico, chi ve lo dice?

      Erotico. Tutta la cittá. Ma sappiate che Sulpizia è mio dono irrevocabile, perché ci abbiamo data la fede di essere sposi, e i nostri amori non son stati sterili: però non sarete per possederla legitimamente mai per moglie, né senza gelosia.

      Attilio. Io prender la vostra Sulpizia per moglie?

      Erotico. E sappiate che, se ben l’uomo per sé non val nulla, la disperazione lo fa valoroso. Almeno trattenetevi per qualche tempo, accioché non vedano gli occhi miei cosí nemico spettacolo e io abbia tempo a partirmi per andar disperso per il mondo: cosí viverete senza mio sospetto.

      Attilio. Voi potete promettervi di me come di voi stesso, perché stimo voi come un altro me stesso; e vi do potestá che ve la godiate e procacciate per moglie, ch’io vi rinunzio ogni interesse che pretendesse in lei, e ve la rifiuto.

      Erotico. Ella non è cosa di rifiuto, però non voglio crederlo.

      Attilio. Se non volete credere il vero, crederete il falso.

      Erotico. E che credete ch’io creda?

      Attilio. Ogni altra cosa, fuor che la veritá.

      Erotico. Piacesse a Dio che cosí fusse!

      Attilio. A Dio piace che cosí sia.

      Erotico. Dubito che non lo diciate, ché, confidandomi nelle parole vostre, mi attraversiate e la conseguiate con piú agevolezza.

      Attilio. Io stimo che i nostri travagli abbino gran somiglianza e corrispondenza fra loro; ma accioché io non mi doglia di voi di quello che voi vi dolete di me, vi narrerò il tutto, e vederete che, se voi avete ragione, io non ho il torto.

      Trinca. Signor Erotico, se voi non tacete, e voi, padrone, non scoprite il fatto, consumaremo il giorno; e noi abbiamo carestia di tempo.

      Erotico. Io taccio e ascolto, e per ascoltar meglio comprarei un altro paio di orecchie.

      Attilio. Sappiate che, trovandosi Pardo mio padre a’ serviggi della regina Bona in Polonia, ché la serviva di scalco, per stanziarvi piú aggiatamente mandò a chiamar Costanza sua moglie e Cleria sua figlia, allora bambina, da Nola, perché condusse me seco, ch’era un poco grandetto. Accadde che, essendosi imbarcate in Bari per andar a trovarlo, per una fiera tempesta non s’ebbe piú nuova di loro; talché in avisi e in lettere a diversi amici, in diverse parti, s’andar consumando il tempo e le speranze, e fra tanto si tenne suspeso il dolore. Poi venne aviso come la barca era sommersa: e sommerse mio padre in un mar di lacrime e in una amarissima memoria di lor duro caso. Appresso s’ebbe nuova che, da alcune fuste di turchi rapite, erano state condotte in Constantinopoli. Duo anni sono, ebbe nuova di Costanza sua moglie, ch’era schiava di un bassá, che, per esser decrepita, l’avrebbe venduta a buona derata; e che Cleria serviva un sangiacco fuor di Costantinopoli. Pardo mio padre mi sforzò a far questo viaggio, e mi diede trecento scudi per lo riscatto e altri per lo viaggio, con lettere di favore a quei clarissimi in Vineggia, ché di lá m’imbarcassi per Constantinopoli. Giunsi a Vineggia, in casa di un napolitano, chiamato Pandolfo, dove sogliono alloggiare tutti i passaggieri napolitani. Venne l’ora della cena, e ci sedemmo a tavola; e una giovane, chiamata Sofia, ci serviva. Ella, nel volgermi gli occhi sopra, mi lanciò una fiamma nel core, che non cessò mai serpir per tutto, fin che non fece ben l’officio suo. Io, sentendomi le vene diseccate dal fuoco, chiedea da bere, e per rinfrescarmi e per godermi di quella divinissima vista piú da presso. Ma facea contrario effetto, perché amor avea mischiato veleno e fuoco in quel vino che mi avvelenava e uccideva in un tempo. Cosí, tra vivo e morto, non sapeva che mangiava o beveva o aveva; ma parea un di quei che si sognano mangiare: ché la mia cena fu la sua bellezza. Si levò la mensa, e tutto inebriato di amore, me ne andai a dormire, con speranza di riposare, pensandomi che l’infirmitá dell’animo fossero come quelle del corpo, che col sonno s’acchetassero. Ma il sonno fu peggio che la cena: perché l’infirmitá dell’animo nel giorno s’addormentano

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