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poco prima di maritarsi, nel villaggio, in compagnia di una famiglia presso la quale stava quale governante. Aveva fatto allora la conoscenza della madre di Alfonso, la quale le aveva raccomandato il figliuolo. Forse la lettera di raccomandazione della signora Carolina non sarebbe valsa gran che, se i Lanucci non fossero stati alla ricerca d’un inquilino per una stanzuccia che v’era in casa oltre il bisogno della famigliuola. Alfonso capitò dunque a proposito e venne accolto bene.

      Negli ultimi anni, traviato dall’ambizione dell’indipendenza, il signor Lanucci aveva abbandonato un impiego non splendido ma ch’era bastato a nutrire la famigliuola e s’era messo a fare l’agente, a rappresentare ogni e qualunque specie di case, in tutti gli articoli. Il poveretto scriveva tutto il giorno offerte a case di cui toglieva gl’indirizzi dalle quarte pagine dei giornali, ma guadagnava sempre meno che a suo tempo da impiegato, e perciò l’umore in famiglia era triste, le sue condizioni essendo precarie dopo di essere state discrete.

      Quest’umore aveva aumentato la nostalgia in Alfonso, perché è la gente triste che fa tristi i luoghi.

      Lo trattavano affettuosamente, ma in Alfonso il signor Lanucci destava una compassione dolorosa, specialmente quando lo vedeva costringersi a usargli cortesie, a sorridergli, a dimostrare interessamento ai fatti suoi, mentre comprendeva che non ne poteva venir considerato che quale un cespite di rendita.

      La signora Lanucci, avvezza da lungo tempo a consolare il marito dell’infruttuosità dei suoi sforzi, aveva assunto la medesima parte con Alfonso e finito col partecipare tanto intensamente delle sorti del giovine, che ne parlava come di affari proprii. L’invito del signor Maller, di cui Alfonso le aveva parlato, aveva destato in lei le maggiori lusinghe; ne parlava come se da quell’invito la fortuna dell’impiegato venisse assicurata. Ci era tanto poco avvezza, che la buona fortuna la sorprendeva.

      Lucinda poteva avere quarant’anni forse, ma, piccola e grassa e pel grigio abbondante dei capelli, ne dimostrava di più. Non era stata mai bella. Aveva apportato al marito qualche poco di dote ch’era stata assorbita da una speculazione in lotti turchi. Era intelligente, vivace, amava di parlare molto e la sua faccia pallida da sofferente le aveva subito conquistata la simpatia di Alfonso.

      Pareva volesse bene al marito; al figliuolo Gustavo, diciottenne, il buona lana come ella lo chiamava, diceva di volerne poco; il suo maggior affetto era per la figliuola Lucia, sedicenne, la quale lavorava da sarta in case private. La madre guadagnava più di tutti quale maestra in una scuola popolare, ma senza i proventi di Lucia i mezzi non sarebbero bastati. La signora Lucinda era desolata di veder la figliuola costretta a passare la gioventù sulla macchina da cucire mentre ella l’aveva passata meglio, perché, da benestante, aveva studiato e s’era divertita. Nelle ristrettezze ella non aveva potuto far nulla per l’educazione di Lucia, ma di questo non si lagnava non avvedendosi che il risultato corrispondeva alla spesa fatta. Ella era intelligente e non s’accorgeva che il discorrere della figliuola era insipido, disgraziato. La vedeva bella mentre allora Lucia era magra, anemica, come tutti in famiglia, bionda di un biondo tendente al rosso e, causa la magrezza, con la bocca che voleva arrivare alle orecchie. La madre, per deliberato proposito, – era democratica sfegatata, – aveva un contegno da popolana e bestemmiava anche; la figliuola aveva appreso con facilità, nelle case borghesi ove frequentava, le forme esterne da signorina, le quali in quella casa stonavano. Gustavo, rozzo e semplice, spesso la derideva; si guadagnò l’antipatia della madre più per questo che per la sua scioperataggine.

      Alfonso trovò il suo vestito nero steso sul letto, piegato accuratamente. La signora Lanucci aveva pensato a tutto, dalla cravatta agli stivali lucidi preparati a piedi del letto. Anche Alfonso si sentiva agitato dalla visita che doveva fare. Non aveva le illusioni nutrite dalla signora Lanucci, ma, per contagio, era agitato più che la cosa non valesse. Smise il suo vestito d’ogni giorno e lo gettò sul letto come se non avesse avuto da indossarlo più.

      Quando entrò nel piccolo tinello ove desinava la famigliuola, poté illudersi di essere vestito molto bene. Il signor Lanucci lo guardò e volle apparire ammirato dell’aspetto di Alfonso. Gustavo, sucido, con la bocca piena, gli si avvicinò con un sorriso veramente benevolo. A lui il signorino non destava invidia, perché egli aveva tutt’altri desiderî: qualche soldo in tasca per poter passare la serata in osteria e null’altro. Allora Gustavo era inserviente presso un gabinetto di lettura e sembrava stesse per far giudizio nel nuovo posto, ove, purtroppo, poco c’era da guadagnare ma pochissimo da lavorare.

      Con la camicia di bucato, il solino alto, l’abbondante capigliatura bruna ravviata, vestito di nero, Alfonso era un bel giovanotto. Teneva in mano i guanti chiari comperati quel giorno per consiglio di Miceni. Un occhio più esercitato avrebbe scorto su quel vestito nero qualche tratto lucido logoro, e di più che il taglio non era moderno, il collo troppo aperto, la stoffa poi non buona, tanto che cedeva alla rigidezza della camicia. In famiglia Lanucci non si aveva l’occhio esercitato a queste piccolezze.

      La giovinetta Lucia aveva terminato di mangiare, s’era allontanata un poco dal tavolo, appoggiata allo schienale della seggiola, le mani incrociate. Non fece motto che rivelasse ch’ella si fosse accorta della teletta speciale di Alfonso. Le sue relazioni col giovine erano ottime, e quando era in casa lo serviva volontieri. Le piaceva renderglisi utile perché per ogni passo ch’ella per lui facesse, egli la ringraziava in modo sempre ugualmente vivace. Del resto la gentilezza di modi fra di loro divenne anche eccessiva, perché Lucia trovava finalmente la persona con cui trattare nel modo spiato ai borghesi e incoraggiato dalla madre. Gustavo diceva ch’ella con Alfonso si sfogava.

      Il signor Lanucci doveva aver passato la cinquantina. Si tingeva, avendo la tintura gratis in campioni ch’egli si faceva rimettere da case che offriva di rappresentare, e i suoi capelli erano neri dove l’età non li aveva imbianchiti, giallognoli dove senza tintura sarebbero stati bianchi. Portava una barba piena lunghetta, condizionata in quanto a colore come la capigliatura. Di sera, per leggere, si metteva degli occhiali rozzi, troppo grandi per la distanza fra’ due occhi, piccoli, grigi che quasi poggiavano al naso.

      Fece dei complimenti ad Alfonso e lo pregò di sedere accanto lui, onore non accordato più a Gustavo dopo che aveva perduto un impiego discreto procuratogli con somma fatica. Era l’unico castigo che sapeva infliggergli, non avendo per altri né energia, né testa.

      Gustavo, senza parlare, – teneva il broncio al padre perché questi lo teneva a lui, – consegnò ad Alfonso una lettera. Alfonso non l’aprì con grande premura. Era tanto preoccupato che non ebbe la pazienza di decifrare i caratteri malsicuri della madre; rimise in tasca la lettera dopo averla scorsa rapidamente.

      – Che presto! – disse la signora Lanucci con leggero accento di rimprovero.

      – È molto piccola! – rispose Alfonso arrossendo; – vi saluta tanto!

      Il vecchio aveva cominciato a raccontare dei lavori della sua giornata. Era la storia di ogni sera. Per giustificarsi dinanzi alla moglie, raccontava quanto avesse brigato per fare affari. Tutto sommato, quel giorno aveva guadagnato un grosso pacco d’aghi che una piccola fabbrica gli aveva inviato in natura per senseria di un affare conchiuso da lui. Nella mattina aveva fatto delle visite in case private, presentandosi con una lettera di raccomandazione datagli da un suo amico procuratore in una casa commerciale, il quale egli riteneva avesse dell’influenza in paese. Aveva offerto del cognac, ma senza esito. In tavola faceva bella mostra di sé il campione. A mezzodì il Lanucci aveva ricevuto la posta, cioè il pacco d’aghi e la lettera di una Società d’assicurazioni, che lo costituiva suo rappresentante. Subito al pomeriggio s’era messo alla ricerca di persone che volessero assicurarsi. Con la nota dei conoscenti ch’egli aveva sempre seco, il vecchio aveva percorso la città. Gli amici gli avevano spiegato perché non volessero assicurarsi, dimostrandogli d’essere già assicurati o di non poter sottostare a una spesa tanto elevata; gli altri o non l’avevano accolto, – Lanucci amava recarsi dalle persone che tenevano domestici alla porta, – o rimandato con poche e secche parole come si fa coi mendici. Quest’ultima osservazione non era del Lanucci, il quale raccontava con la calma dell’uomo perseverante pronto a ricominciare il giorno dopo. Però nella giornata aveva fatto qualche cosa: aveva scritto alla sua Società d’assicurazioni comunicandole che nulla ancora aveva concluso, ma che sperava bene e che la senseria non gli bastava, visto ch’era tanto difficile di fare affari.

      – Poveri

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