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identici a quelli degli altri impiegati: due armadi di legno dipinti rozzamente in giallo, una sedia di paglia e, di fianco all’unica finestra, un altro tavolo da cui era stato levato il palchetto.

      Sanneo, seduto, andava consegnando a Miceni che stava alla sua destra in piedi, lettera per lettera, un grosso pacco, indicandogli esattamente quanto avesse da fare a un dato giorno o dopo ricevuto altro scritto. Riponeva qualche lettera anche dopo data tutta la spiegazione osservando con una smorfia che c’era tempo per rispondere e che voleva farlo lui a suo tempo. Si capiva che gli seccava di abbandonare a Miceni tutta la sua gestione.

      Miceni ritornò nella sua stanza col capo ritto, la figurina tesa, il passo rigido. Si sedette e con un sorriso sprezzante mormorò:

      – Tante spiegazioni come se fossi da ieri alla banca.

      Ripensandoci rammentò dei particolari del suo colloquio con Sanneo e ne rise:

      – Vuoi scommettere che all’ultimo momento Sanneo si pente e rimane?

      Il più vivo desiderio di Alfonso era di andarsene; non sapeva perciò ammettere che altri volesse rimanere.

      Poco dopo venne Sanneo ad avvisare che differiva la partenza al giorno appresso. Miceni guardò Alfonso, e quando uscì Sanneo esclamò con ira:

      – Valeva la pena di tenermi di là per un’ora a darmi delle istruzioni di cui non avevo bisogno!

      – Saranno buone per domani! – rispose Alfonso che per affari d’ufficio non comprendeva l’ira.

      – Domani partirà come è partito oggi.

      Invece Sanneo partì. Alla sera andò in giro nei diversi uffici a salutare gl’impiegati. Porse la mano ad Alfonso che, balbettando, gli augurava il buon divertimento, e lo ringraziò con un sorriso veramente benevolo. Ad onta di quanto gli era stato detto, Alfonso credette di veder brillare in quegli occhi irrequieti la gioia per i quindici giorni di libertà.

      Miceni occupò la stanza di Sanneo per essere alla mano dei direttori. Riceveva gli ordini direttamente dal signor Maller o dal signor Cellani e Alfonso gl’invidiava la disinvoltura con la quale trattava con tali alti personaggi.

      Per Alfonso fu questo un intervallo di riposo a quel lavorio di copiatura a cui veniva costretto da Sanneo ed ebbe poscia spesso a rimpiangere questi quindici giorni. Non importava gran fatto a Miceni che venissero spedite molte offerte; per corrispondere all’impegno preso gli bastava che il lavoro d’obbligo venisse fatto intero e senza errori. Ebbe l’intelligenza di abbandonare subito il sistema seguito da Sanneo. Costui non dava da fare la posta corrente che a Miceni e a due altri impiegati; gli altri tutti facevano un lavoro basso di copiatura e di revisione di conteggi: «È preferibile un impiegato che comprenda a dieci imbecilli» soleva dire Sanneo. Miceni chiamò tutti ad aiutarlo e ad Alfonso toccò scrivere piccole lettere italiane di scritturazione, lavoro più variato e più piccolo di quello avuto sino ad allora.

      Solo nella sua stanza, trovò il tempo di leggere dei libri che si portava di casa. Romanzi non leggeva avendo ancora sempre il disprezzo da ragazzo per la letteratura detta leggera. Amava i suoi libri scolastici che gli ricordavano l’epoca più felice della sua vita. Uno di questi leggeva e rileggeva instancabile, un trattatello di retorica contenente una piccola antologia ragionata di autori classici. Vi si parlava per lungo e per largo di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e Alfonso, avuta l’idea teorica che faceva sua, sognava di divenire il divino autore che avrebbe riunito in sé tutti quei pregi essendo immune da quei difetti.

      Alla sera nella stanza di Alfonso, la quale era la più appartata, si riunivano parecchi corrispondenti a chiacchierare. Quando c’era il signor Sanneo vi si stava sempre all’erta perché capitava inatteso come una bomba, col suo passo sempre affrettato e a pena entrato, qualunque ora fosse, gridava: «Non perdano tempo, non perdano tempo!» Nessuno si arrischiava di rispondere e il gruppo si scioglieva come una mandra dispersa da un cane imbizzito.

      Miceni invece, anche adesso, veniva qualche sera a passare la mezz’ora quieto in quella stanza. Stava zitto, sdraiato sul vecchio sofà, stanco ma lieto della giornata, agitato dall’importanza del suo lavoro.

      Ballina lo trattava per derisione con rispetto affettato. Un giorno, nella foga del lavoro, Miceni gli aveva rimproverato lentezza ed egli non gliela perdonava. Miceni cercò di giustificare quella sgridata, ma Ballina gli rise in faccia:

      – Come se gli affari della banca fossero i tuoi. Capisco, quantunque molto difficilmente, che il signor Maller, che il signor Sanneo ci tratti con alterigia, ma non un capo corrispondente per quindici giorni.

      Certamente Ballina doveva essere una persona felice; aveva la beatitudine del suo molto lavoro meccanico tanto evidente, che persino Alfonso che volentieri non l’avrebbe ammesso, la comprese. Si diceva per vanteria capo dell’ufficio informazioni ma ne era l’unico componente. Lui domandava le informazioni e lui le copiava e le disponeva per ordine alfabetico in un grande armadio. Non teneva sospesi perché il suo lavoro non lo richiedeva e aveva l’abitudine di rimanere all’ufficio molte più ore di quanto fosse obbligato. Puliva bocchini d’osso di cui era provvisto in quantità, raddrizzava serrature, aguzzava rasoi, si faceva la barba in ufficio, quando se la faceva. Grande fumatore, aveva sempre nel cassetto un enorme quantità di tabacco in mucchio su un foglio di carta oleata; era una mescolanza di diverse specie e profumata da una radice che dava alla sua stanza un odore intenso di resina. Era la sua vera abitazione quella stanza; ci aveva introdotto delle comodità, tra altre inchiodato sulla sedia di paglia un pezzo di corame per sedere più comodo. Un cassetto del suo tavolo era destinato esclusivamente alle munizioni; del pane, talvolta del burro, spesso una bottiglia di birra, sempre una bottiglietta di zozza di cui usava offrire agli amici che venivano a fargli visita. Nell’altra sua abitazione non doveva stare troppo comodo. Raccontava che la stanza ove dormiva era tanto piccola che essendoci il letto e l’armadio, la sedia era di troppo e impediva l’ingresso. Non potendo farne a meno trovò un meccanismo ingegnoso:

      – Legai la sedia ad una corda che attaccai alla parte superiore della porta dopo di averla fatta passare per un gancio sporgente dal muro. Aprendosi la porta, la sedia sale e lascia l’ingresso libero; chiusa la porta ci si trova la sedia accanto e si può sedervisi senza muover passo.

      C’era forse dell’esagerazione in tale descrizione, ma di certo qualche cosa di vero. Un giorno dinanzi ad Alfonso consegnò ad un servo di piazza le chiavi della sua stanza incaricandolo di trovargli un nuovo alloggio e di trasportarvi i suoi pochi mobili. La sua abitazione, quella che aveva il suo affetto da femmina, era l’ufficio.

      Ballina con quel suo aspetto posato aveva dissipato una piccola sostanza che gli era stata affidata, come egli diceva, quando ancora non comprendeva il valore del denaro. Per un annetto di piaceri, ne aveva passati molti nella miseria e doveva passarne molti altri, «fino alla morte probabilmente» diceva, mentre se avesse avuto a disposizione qualche poco di denaro, ingegnoso come era avrebbe saputo aiutarsi. Così invece lavorò sempre per altri, in una fabbrica di bocchini, in altra di aceto, rivenditore ad un’esposizione, da un negoziante di bastoni e così via, sempre malissimo retribuito. Finalmente capitò da Maller ove si affezionò a quel lavoro tanto da rassegnarsi ad un emolumento misero assai.

      Il corrispondente francese, White, faceva di solito le spese della conversazione. Di famiglia inglese trapiantata in Francia, era stato allontanato da Parigi dai suoi parenti che temevano mangiasse tutta la sua sostanza al giuoco e nella vita comoda e signorile che amava di condurre. Era entrato alla banca quale corrispondente francese, da prima sottoposto a Sanneo, poi indipendente dopo una violenta baruffa con il suo capo. Maller riconobbe che quei due non potevano andare d’accordo e li divise non volendo costringere White a sottomettersi. White era protetto da un banchiere suo vecchio amico. Il lavoro di White verteva quasi del tutto su affari di borsa di cui pareva avesse una perfetta conoscenza. Era del resto un buon impiegato, rapido lavoratore quantunque disordinato. Sempre vestito elegantemente, aveva però una figura tozza, il passo incerto, la schiena teneva curva e gli dava un aspetto molto originale il vestito da lion con quella figura da vecchio. Il suo volto invece era regolarissimo; gli occhiali lo abbellivano accrescendo serietà alla sua faccia bruna. Nel luogo che per lui era di provincia, s’era appassionato per la caccia e la sua pelle portava le traccie delle molte ore passate al sole. Lavorava con

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