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Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.

      – Il fatto è questo, – cominciava a gridare il conte Attilio.

      – Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, – riprese don Rodrigo. – Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta…

      – Ben date, ben applicate, – gridò il conte Attilio. – Fu una vera ispirazione.

      – Del demonio, – soggiunse il podestà. – Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.

      – Sì, signore, da cavaliere, – gridò il conte: – e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d’un mascalzone.

      – Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.

      – Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo…

      – Risponda un poco a questo sillogismo.

      – Niente, niente, niente.

      – Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo…

      – Piano, piano, signor podestà.

      – Che piano?

      – Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi… ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?

      – Io… – rispose confusetto il dottore: – io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice… qui il padre…

      – È vero; – disse don Rodrigo: – ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?

      – Ammutolisco, – disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione.

      – Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, – disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.

      – Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo, – rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.

      – Scuse magre: – gridarono i due cugini: – vogliamo la sentenza!

      – Quand’è così, – riprese il frate, – il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate.

      I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati.

      – Oh questa è grossa! – disse il conte Attilio. – Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.

      – Lui? – disse don Rodrigo: – me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?

      In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sé medesimo: «queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto».

      – Sarà, – disse il cugino: – ma il padre… come si chiama il padre?

      – Padre Cristoforo – rispose più d’uno.

      – Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.

      – Animo, dottore, – scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, – animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.

      – In verità, – rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, – in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.

      Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.

      Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un’altra. – A proposito, – disse, – ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.

      Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato.

      – Non son lontano dal credere, – disse il conte Attilio, – che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi…

      – Non creda, signor conte, non creda, – interruppe il podestà. – Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa…

      – Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni…

      – Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e…

      – E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se…

      – Il nome legittimo in lingua alemanna, – interruppe ancora il podestà, – è Vagliensteino,

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