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che trovo su un volume di filosofia positiva dell’Ostwald sul quale pieno di speranza passai varie ore e che mai intesi. Nessuno lo crederebbe, ma ad onta di quella forma, quell’annotazione registra l’avvenimento più importante della mia vita.

      Mia madre era morta quand’io non avevo ancora quindici anni. Feci delle poesie per onorarla ciò che mai equivale a piangere e, nel dolore, fui sempre accompagnato dal sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una vita seria e di lavoro. Il dolore stesso accennava ad una vita più intensa. Poi un sentimento religioso tuttavia vivo attenuò e addolcì la grave sciagura. Mia madre continuava a vivere sebbene distante da me e poteva anche compiacersi dei successi cui andavo preparandomi. Una bella comodità! Ricordo esattamente il mio stato di allora. Per la morte di mia madre e la salutare emozione ch’essa m’aveva procurata, tutto da me doveva migliorarsi.

      Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era più una dimane ove collocare il proposito.

      Tante volte, quando ci penso, resto stupito della stranezza per cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia prodotta alla morte di mio padre e non prima. Sono in complesso cose recenti e per ricordare il mio enorme dolore e ogni particolare della sventura non ho certo bisogno di sognare come vogliono i signori dell’analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino alla sua morte io non vissi per mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo senz’offenderlo, lo evitai. All’Università tutti lo conoscevano col nomignolo ch’io gli diedi di vecchio Silva manda denari. Ci volle la malattia per legarmi a lui; la malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il medico lo diede subito per spacciato. Quand’ero a Trieste ci vedevamo sì e no per un’oretta al giorno, al massimo. Mai non fummo tanto e sì a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari l’avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato. Era difficile di trovarsi insieme anche perché fra me e lui, intellettualmente non c’era nulla di comune. Guardandoci, avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento, reso in lui più acido da una viva paterna ansietà per il mio avvenire; in me, invece, tutto indulgenza, sicuro com’ero che le sue debolezze oramai erano prive di conseguenze, tant’è vero ch’io le attribuivo in parte all’età. Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, – a me sembra, – troppo presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l’appoggio di una convinzione scientifica, egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva – e qui con fede scientifica sicura – ad aumentare la mia diffidenza per lui.

      Egli godeva però della fama di commerciante abile, ma io sapevo che i suoi affari da lunghi anni erano diretti dall’Olivi. Nell’incapacità al commercio v’era una somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza. Già quello che ho registrato in questi fascicoli prova che in me c’è e c’è sempre stato – forse la mia massima sventura – un impetuoso conato al meglio. Tutti i miei sogni di equilibrio e di forza non possono essere definiti altrimenti. Mio padre non conosceva nulla di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d’accordo sul modo come l’avevano fatto ed io devo ritenere ch’egli mai abbia compiuti degli sforzi per migliorarsi. Fumava il giorno intero e, dopo la morte di mamma, quando non dormiva, anche di notte. Beveva anche discretamente; da gentleman, di sera, a cena, tanto da essere sicuro di trovare il sonno pronto non appena posata la testa sul guanciale. Ma, secondo lui, il fumo e l’alcool erano dei buoni medicinali.

      In quanto concerne le donne, dai parenti appresi che mia madre aveva avuto qualche motivo di gelosia. Anzi pare che la mite donna abbia dovuto intervenire talvolta violentemente per tenere a freno il marito. Egli si lasciava guidare da lei che amava e rispettava, ma pare ch’essa non sia mai riuscita ad avere da lui la confessione di alcun tradimento, per cui morì nella fede di essersi sbagliata. Eppure i buoni parenti raccontano ch’essa ha trovato il marito quasi in flagrante dalla propria sarta. Egli si scusò con un accesso di distrazione e con tanta costanza che fu creduto. Non vi fu altra conseguenza che quella che mia madre non andò più da quella sarta e mio padre neppure. Io credo che nei suoi panni io avrei finito col confessare, ma che poi non avrei saputo abbandonare la sarta, visto ch’io metto le radici dove mi soffermo.

      Mio padre sapeva difendere la sua quiete da vero pater familias. L’aveva questa quiete nella sua casa e nell’animo suo. Non leggeva che dei libri insulsi e morali. Non mica per ipocrisia, ma per la più sincera convinzione: penso ch’egli sentisse vivamente la verità di quelle prediche morali e che la sua coscienza fosse quietata dalla sua adesione sincera alla virtù. Adesso che invecchio e m’avvicino al tipo del patriarca, anch’io sento che un’immoralità predicata è più punibile di un’azione immorale. Si arriva all’assassinio per amore o per odio; alla propaganda dell’assassinio solo per malvagità.

      Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva. Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.

      Egli mi rimproverava due altre cose: la mia distrazione e la mia tendenza a ridere delle cose più serie. In fatto di distrazione egli differiva da me per un certo suo libretto in cui notava tutto quello ch’egli voleva ricordare e che rivedeva più volte al giorno. Credeva così di aver vinta la sua malattia e non ne soffriva più. Impose quel libretto anche a me, ma io non vi registrai che qualche ultima sigaretta.

      In quanto al mio disprezzo per le cose serie, io credo ch’egli avesse il difetto di considerare come serie troppe cose di questo mondo. Eccone un esempio: quando, dopo di essere passato dagli studii di legge a quelli di chimica, io ritornai col suo permesso ai primi, egli mi disse bonariamente: – Resta però assodato che tu sei un pazzo.

      Io non me ne offesi affatto e gli fui tanto grato della sua condiscendenza, che volli premiarlo facendolo ridere. Andai dal dottor Canestrini a farmi esaminare per averne un certificato. La cosa non fu facile perché dovetti sottomettermi perciò a lunghe e minuziose disamine. Ottenutolo, portai trionfalmente quel certificato a mio padre, ma egli non seppe riderne. Con accento accorato e con le lacrime agli occhi esclamò: – Ah! Tu sei veramente pazzo!

      E questo fu il premio della mia faticosa e innocua commediola. Non me la perdonò mai e perciò mai ne rise. Farsi visitare da un medico per ischerzo? Far redigere per ischerzo un certificato munito di bolli? Cose da pazzi!

      Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione.

      Ricordo come la sua debolezza fu provata allorché quella canaglia dell’Olivi lo indusse a fare testamento. All’Olivi premeva quel testamento che doveva mettere i miei affari sotto la sua tutela e pare abbia lavorato a lungo il vecchio per indurlo a quell’opera tanto penosa. Finalmente mio padre vi si decise, ma la sua larga faccia serena s’oscurò. Pensava costantemente alla morte come se con quell’atto avesse avuto un contatto con essa.

      Una sera mi domandò: – Tu credi che quando si è morti tutto cessi?

      Al mistero della morte io ci penso ogni giorno, ma non ero ancora in grado di dargli le informazioni ch’egli domandava. Per fargli piacere inventai la fede più lieta

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