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Se essa si fosse rotto l’osso del collo la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto.

      Invece arrivò a me sorridendo perché si trovava in quello stato in cui i dolori non dolgono troppo. Mi raccontò di aver parlato con l’infermiere che andava a coricarsi, ma restava a sua disposizione a letto, per il caso in cui fossi divenuto cattivo. Sollevò la mano e con l’indice teso accompagnò quelle parole da un atto di minaccia attenuato da un sorriso. Poi, più seccamente, aggiunse che il dottore non era rientrato dacché era uscito con mia moglie. Proprio da allora! Anzi per qualche ora l’infermiere aveva sperato che fosse ritornato perché un malato avrebbe avuto bisogno di esser visto da lui. Ora non lo sperava più.

      Io la guardai indagando se il sorriso che contraeva la sua faccia fosse stereotipato o se fosse nuovo del tutto e originato dal fatto che il dottore si trovava con mia moglie anziché con me, ch’ero il suo paziente. Mi colse un’ira da farmi girare la testa. Devo confessare che, come sempre, nel mio animo lottavano due persone di cui l’una, la più ragionevole, mi diceva: «Imbecille! Perché pensi che tua moglie ti tradisca? Essa non avrebbe il bisogno di rinchiuderti per averne l’opportunità.» L’altra ed era certamente quella che voleva fumare, mi dava pur essa dell’imbecille, ma per gridare: «Non ricordi la comodità che proviene dall’assenza del marito? Col dottore che ora è pagato da te!».

      Giovanna, sempre bevendo, disse: – Ho dimenticato di chiudere la porta del secondo piano. Ma non voglio far più quei due piani. Già lassù c’è sempre della gente e lei farebbe una bella figura se tentasse di scappare.

      – Già! – feci io con quel minimo d’ipocrisia che occorreva oramai per ingannare la poverina. Poi inghiottii anch’io del cognac e dichiarai che ormai che avevo tanto di quel liquore a mia disposizione, delle sigarette non m’importava più niente. Essa subito mi credette e allora le raccontai che non ero veramente io che volevo svezzarmi dal fumo. Mia moglie lo voleva. Bisognava sapere che quando io arrivavo a fumare una decina di sigarette diventavo terribile. Qualunque donna allora mi fosse stata a tiro si trovava in pericolo.

      Giovanna si mise a ridere rumorosamente abbandonandosi sulla sedia:

      – Ed è vostra moglie che v’impedisce di fumare le dieci sigarette che occorrono?

      – Era proprio così! Almeno a me essa lo impediva.

      Non era mica sciocca Giovanna, quand’aveva tanto cognac in corpo. Fu colta da un impeto di riso che quasi la faceva cadere dalla sedia, ma quando il fiato glielo permetteva, con parole spezzate, dipinse un magnifico quadretto suggeritole dalla mia malattia:

      – Dieci sigarette… mezz’ora… si punta la sveglia… eppoi…

      La corressi:

      – Per dieci sigarette io abbisogno di un’ora circa. Poi per aspettarne il pieno effetto occorre un’altra ora circa, dieci minuti di più, dieci di meno…

      Improvvisamente Giovanna si fece seria e si levò senza grande fatica dalla sua sedia. Disse che sarebbe andata a coricarsi perché si sentiva un po’ di male alla testa. L’invitai di prendere la bottiglia con sé, perché io ne avevo abbastanza di quel liquore. Ipocritamente dissi che il giorno seguente volevo che mi si procurasse del buon vino.

      Ma al vino essa non pensava. Prima di uscire con la bottiglia sotto il braccio mi squadrò con un’occhiataccia che mi fece spavento.

      Aveva lasciata la porta aperta e dopo qualche istante cadde nel mezzo della stanza un pacchetto che subito raccolsi: Conteneva undici sigarette di numero. Per essere sicura, la povera Giovanna aveva voluto abbondare. Sigarette ordinarie, ungheresi. Ma la prima che accesi fu buonissima. Mi sentii grandemente sollevato. Dapprima pensai che mi compiacevo di averla fatta a quella casa ch’era buonissima per rinchiudervi dei bambini, ma non me. Poi scopersi che l’avevo fatta anche a mia moglie e mi pareva di averla ripagata di pari moneta. Perché, altrimenti, la mia gelosia si sarebbe tramutata in una curiosità tanto sopportabile? Restai tranquillo a quel posto fumando quelle sigarette nauseanti.

      Dopo una mezz’ora circa ricordai che bisognava fuggire da quella casa ove Giovanna aspettava il suo compenso. Mi levai le scarpe e uscii sul corridoio. La porta della stanza di Giovanna era socchiusa e, a giudicare dalla sua respirazione rumorosa e regolare, a me parve ch’essa dormisse. Salii con tutta prudenza fino al secondo piano ove dietro di quella porta – l’orgoglio del dottor Muli, – infilai le scarpe. Uscii su un pianerottolo e mi misi a scendere le scale, lentamente per non destar sospetto.

      Ero arrivato al pianerottolo del primo piano, quando una signorina vestita con qualche eleganza da infermiera, mi seguì per domandarmi cortesemente:

      – Lei cerca qualcuno?

      Era bellina e a me non sarebbe dispiaciuto di finire accanto a lei le dieci sigarette. Le sorrisi un po’ aggressivo:

      – Il dottor Muli non è in casa?

      Essa fece tanto d’occhi:

      – A quest’ora non è mai qui.

      – Non saprebbe dirmi dove potrei trovarlo ora? Ho a casa un malato che avrebbe bisogno di lui.

      Cortesemente mi diede l’indirizzo del dottore ed io lo ripetei più volte per farle credere che volessi ricordarlo. Non mi sarei mica tanto affrettato di andar via, ma essa, seccata, mi volse le spalle. Venivo addirittura buttato fuori della mia prigione.

      Da basso una donna fu pronta ad aprirmi la porta. Non avevo un soldo con me e mormorai:

      – La mancia gliela darò un’altra volta.

      Non si può mai conoscere il futuro. Da me le cose si ripetono: non era escluso ch’io fossi ripassato per di là.

      La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio la brezza della libertà. Guardai le stelle con ammirazione come se le avessi conquistate da poco. Il giorno seguente, lontano dalla casa di salute, avrei cessato di fumare. Intanto in un caffè ancora aperto mi procurai delle buone sigarette perché non sarebbe stato possibile di chiudere la mia carriera di fumatore con una di quelle sigarette della povera Giovanna. Il cameriere che me le diede mi conosceva e me le lasciò a fido.

      Giunto alla mia villa suonai furiosamente il campanello. Dapprima venne alla finestra la fantesca eppoi, dopo un tempo non tanto breve, mia moglie. Io l’attesi pensando con perfetta freddezza: – Sembrerebbe che ci sia il dottor Muli. – Ma, avendomi riconosciuto, mia moglie fece echeggiare nella strada deserta il suo riso tanto sincero che sarebbe bastato a cancellare ogni dubbio.

      In casa m’attardai per fare qualche atto d’inquisitore. Mia moglie cui promisi di raccontare il giorno appresso le mie avventure ch’essa credeva di conoscere, mi domandò:

      – Ma perché non ti corichi?

      Per scusarmi dissi:

      – Mi pare che tu abbia approfittato della mia assenza per cambiar di posto a quell’armadio.

      È vero ch’io credo che le cose, in casa, sieno sempre spostate ed è anche vero che mia moglie molto spesso le sposta, ma in quel momento io guardavo ogni cantuccio per vedere se vi era nascosto il piccolo, elegante corpo del dottor Muli.

      Da mia moglie ebbi una buona notizia. Ritornando dalla casa di salute s’era imbattuta nel figlio dell’Olivi che le aveva raccontato che il vecchio stava molto meglio dopo di aver presa una medicina prescrittagli da un suo nuovo medico.

      Addormentandomi pensai di aver fatto bene di lasciare la casa di salute poiché avevo tutto il tempo per curarmi lentamente. Anche mio figlio che dormiva nella stanza vicina non s’apprestava certamente ancora a giudicarmi o ad imitarmi. Assolutamente non v’era fretta.

      3. LA MORTE DI MIO PADRE

      Il dottore è partito ed io davvero non so se la biografia di mio padre occorra. Se descrivessi troppo minuziosamente mio padre, potrebbe risultare che per avere la mia guarigione sarebbe stato necessario di analizzare lui dapprima e si arriverebbe così ad una rinunzia. Procedo con coraggio perché so che se mio padre avesse avuto bisogno della stessa cura, ciò sarebbe stato per tutt’altra malattia della mia. Ad ogni modo, per non perdere tempo, dirò di lui solo quanto possa giovare a ravvivare il ricordo di

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