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"mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede piú requie.

      Come sopportare in me quest'estraneo? quest'estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?

      – Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c'è piú dubbio: Anna Rosa dev'esser malata. Andrò io a vederla.

      – Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.

      Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?

      Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.

      Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.

      – Ah, ridi?

      – Cara, mi vedo obbedito cosí...

      E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:

      – Un quarto d'ora, non piú. Te ne scongiuro.

      M'assicurai cosí che fino a sera non sarebbe rincasata.

      Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.

      «Finalmente!»

      Prima volli ricompormi, aspettare che mi scomparisse dal volto ogni traccia d'ansia e di gioja e che, dentro, mi s'arrestasse ogni moto di sentimento e di pensiero, cosí che potessi condurre davanti allo specchio il mio corpo come estraneo a me e, come tale, pormelo davanti.

      – Su, – dissi, – andiamo!

      Andai, con gli occhi chiusi, le mani avanti, a tentoni. Quando toccai la lastra dell'armadio, ristetti ad aspettare, ancora con gli occhi chiusi, la piú assoluta calma interiore, la piú assoluta indifferenza.

      Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l'estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi.

      C'era, e io non lo vedevo.

      Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me, gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto; non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e non vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto cosí come un altro?

      Qui era il punto.

      M'era accaduto tante volte d'infrontar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; cosí l'altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch'io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall'altro, ma io no, non avrei piú potuto vederlo. Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio.

      Stando a pensare cosí, sempre con gli occhi chiusi, mi domandai:

      «È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com'io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d'essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell'altro che tutti vedono e io no. Sú, dunque, calma, arresto d'ogni vita e attenzione!»

      Aprii gli occhi. Che vidi?

      Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.

      M'assalì una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l'acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi s'allontanava da me; ma smorivo anch'io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d'impedire che mi sentissi anch'io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè, era proprio cosí: io potevo vedermeli, non già vederli.

      Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.

      – Sta' serio, imbecille! – gli gridai allora. – Non c'è niente da ridere!

      Fu cosí istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell'espressione nella mia immagine, e cosí subito seguí a questo cambiamento un'attonita apatia in essa, ch'io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.

      Ah, finalmente! Eccolo là!

      Chi era?

      Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

      – Moscarda... – mormorai, dopo un lungo silenzio.

      Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.

      Poteva anche chiamarsi altrimenti.

      Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le pàlpebre, e non se n'accorgeva.

      Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po' rilevato:

      Ecco, era cosí: lo avevano fatto cosí, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un'altra statura, poteva sí alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio; ma adesso era cosí; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era cosí.

      Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, cosí?

      Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in un'immagine di me necessaria?

      Mi stava lì davanti, quasi inesistente, come un'apparizione di sogno, quell'immagine. E io potevo benissimo non conoscermi cosí. Se non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato ad avere dentro quella testa lì sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sí, e tant'altri. Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci piú o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.

      Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel

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