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Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi
Читать онлайн.Название Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI
Год выпуска 0
isbn 4064066073381
Автор произведения Francesco Domenico Guerrazzi
Жанр Языкознание
Издательство Bookwire
O Bellezza! Io dai primi anni ti ho alzato un altare nell'anima, dove ti sacrifico i più dolci dei miei pensieri;—pensieri che, me levando da questa creta mortale, mi avvicinano al Creatore di tutta bellezza; ma nè io ho parole, nè credo che veruno umano eloquio le possieda, capaci di significarti degnamente: se potessi appormi la carta sul cuore, e improntarla dei suoi palpiti, forse aprirei alle genti concetti non mai più uditi: però questo nè a me, nè ad altri fu concesso, e le mie immagini è forza che si rivelino incomplete, vaghe, e confuse; onde se la fantasia di chi legge non supplisce al difetto, io dispero farmi comprendere. Oh da quante catene è stretta quaggiù l'anima immortale!
Bellezza, Amore, voi eravate ai fianchi di Dio nel giorno della creazione; egli vi lasciò suoi primi vicarii sopra la terra. La bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville scoppiate insieme dal primo fulmine che Dio avventò contro l'uomo, quando lo condannava allo affanno e alla morte. Il culto della Bellezza e dello Amore riconduce la nostra schiatta diseredata alla sua origine divina.
O Francesco Petrarca, tu che per prova intendesti amore; dopo tanti dolci concetti, con quale amaro liquore ti bagnò il labbro Calliope quando dettasti questi versi ingiocondi:
Ei nacque d'ozio, e di lascivia umana, Nudrito di pensier dolci e soavi, Fatto signore e dio da gente vana?[2]
E senza amore dove sarebbe adesso il tuo nome? L'Africa certo, e il dotto favellìo delle tue epistole non farebbero cercare il tuo volume. Tu saresti, come tanti altri scrittori, posto a modo di medaglia antica dentro lo scaffale, per informare chi avesse voglia di saperlo, che tu vivesti un dì. Se amore nasce da lascivia, o come avviene che nel muovere degli occhi onesti e tardi della tua donna tu vedevi il dolce lume, che ti mostrava la via che al ciel conduce? Se in cuore umano fuoco di amore poco dura dove occhio e tatto spesso nol raccenda, o come, dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa nei raggi di sua stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì, or no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto vaneggiare, dicevi alla tua mente:
….. tu se' ingannata; Sai che in mille trecentoquarantotto Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima, Del corpo uscìo quell'anima beata?[3]
Ah! se la terra avesse sepolto a un punto la bella vesta delle membra di Laura e la memoria del suo amore, i tuoi canti suonerebbero esercitazioni di gaia scienza, eco delle canzoni dei Trovatori, gemiti mentiti di cuore bugiardo; e se così fosse, io ti compiangerei perchè avresti tradito i posteri, e te.
Beatrice stava seduta sopra un verone del palazzo Cènci, che guardava il giardino: in grembo ella teneva un fanciullo, che dagli occhi, dai capelli, da tutte le sembianze appariva esserle fratello: ella gli accarezzava amorosa i capelli, e di tratto in tratto gli baciava la fronte. Il fanciullo riposa il suo capo sul seno della sorella, e affissa in lei le pupille immote, ma senza intenzione, a guisa di persona assorta nel pensiero di qualche cosa fuori di questo mondo. La infermità aveva appassito il fiore della giovanezza: la sua pelle era tenue, e candida di un bianco pallido e dilicato così, che i raggi del sole cadente gli tralucevano in vermiglio traverso le orecchia e le dita: talora sospirava, più spesso schiudeva la bocca con isbadiglio convulso: pareva un angiolo in pena. Beatrice sconsolata gli disse:
—A che pensi, mio diletto Virgilio?
—Penso, che sarebbe pure stata la grande carità non farci mai venire al mondo!
—Ah! Virgilio…
—E poichè a questo non trovo più rimedio, il meglio sarà uscirne presto.
—Uscirne! E perchè?
—E perchè restarci? Il mio cuore qui dentro è morto da tempo; e quando il cuore è morto, oh come pesa che gli sopravviva il corpo!
—Tu, si può dire, ti affacci appena, fratello, alla vita, e già favelli parole disperate; ciò non istà bene: vivi e rallegrati, perchè non sai quali rose educhi per te la fortuna.
—Rose! fortuna! Adesso la morte coglie i fiori per la ghirlanda della mia bara. La fortuna mi abbandonò quel giorno che perdemmo la madre…
—Ma noi non ci possiamo considerare orfani affatto: forse l'ottima signora Lucrezia non ci mostra viscere di madre?
—Sì, ma non è nostra madre.
—E poi non hai anche me, che ti amo tanto?
—Sì, sì, buona sorella, rispose il fanciullo gittandole le braccia al collo e piangendo dirotto;—ma nè anche tu sei la mamma mia.
—Ed oltre a me, ti mancano forse fratelli? Non hai tu padre?
—Chi padre?
Beatrice, atterrita dallo improvviso rimescolarsi del fanciullo a cotesta parola, si tacque. Solo, dopo lungo silenzio, con voce esitante soggiunse:
—Francesco Cènci non è per avventura tuo padre… e mio?
Il fanciullo abbassò il capo, chiuse gli occhi, fece delle braccia al petto croce, e con suono velato rispose:
—Sorella, guardami su la fronte alla radice dei capelli; vedi la cicatrice che vi porto?—La vedi?—Sai tu chi mi ha ferito?—Io non tel dissi fin qui; ma ora, che mi sento vicino a morire, io te lo posso confessare. Ripensando fra me come Francesco Cènci mi tenesse in dispregio, e sovente mi guardasse di traverso, nè a me parendo di meritarlo, un giorno, fattomi cuore, gli caddi davanti, e tentai prendergli la mano per recarmela alla bocca. Egli gridò: «va via, bastardo!» e mi diè così forte un pugno nel petto, che mi spinse giù a precipizio a percuotere col capo nello angolo dello armario, ch'ei tiene nel suo studio.—Francesco Cènci mi vide svenuto, e tutto intriso di sangue;—mi vide, e non mi rilevò.—Di qui la ferita; di qui la infermità, che mi consuma le viscere…
Beatrice rabbrividì, nè potè formare parola. Il fanciullo con passione crescente scuoprendo dalla manica un braccio scarno, e sporgendolo verso la sorella:
—Guarda, aggiunse, la traccia di questo morso. Sai tu chi me lo