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Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi
Читать онлайн.Название Isabella Orsini, duchessa di Bracciano
Год выпуска 0
isbn 4064066071264
Автор произведения Francesco Domenico Guerrazzi
Жанр Языкознание
Издательство Bookwire
Ahi! messere Lionardo, come tristo ragionare è cotesto! Come suona sofistico e callido, e affatto indegno di uomo grave! Come e dove vi trasportava il mal genio, o il bisogno di mentire adulando! Parrebbevi onestà, se alcuno si prevalesse dei doni di uomo preso da manía? Molto più dei doni che non si possono fare, come la libertà della patria che da Dio viene, e a Dio spetta, ed è inalienabile, perchè non appartiene a nessuna, ed appartiene a tutte le generazioni; e la generazione presente, che disereda [pg!71] i posteri, come nemica del suo sangue non opera alto valido. Sarà arrogante il medico, se non abusa della malattia dello infermo, ma pietosamente lo risana? — I popoli, quando stanchi della propria dignità si accasciano in terra come il cammello invocando qualcheduno che li cavalchi (posto che ciò non avvenga, come suole quasi sempre accadere, per tradimento o per fraude), o si possono, o non si possono guarire: nel primo caso, si guariscono, e poi, se lo esempio di Licurgo sembra duro a seguirsi, si adoperi quello di Solone e di Andrea Doria, o piuttosto scelgasi volontario esilio, dacchè l’uomo mal vive cittadino là dove principe imperava; nel secondo caso, consumato ogni sforzo, come Silla getti la scure, e lo abbandoni alla ira di Dio: almeno tali devono governarsi le anime che il mondo saluta grandi, che partite da questa terra esercitano le lingue degli oratori e le fantasie dei poeti, e finalmente che ricordano derivare l’uomo origine divina. Per forza o per ingegno, offerta od usurpata, a verun cittadino è lecito togliere la libertà alla propria patria: questo contende la morale, questo la pietà, questo la religione di tutti i popoli, e principalmente poi la cristiana. — Sì certamente, la carità cristiana, perchè rigettata la distinzione di San Tommaso come scolastica, e proposta piuttosto a modo di disquisizione astratta che vera in pratica, di tiranno imposto a forza, di tiranno recatosi addosso volontariamente, onesta è quella azione che possiamo eleggere sempre, conforme [pg!72] insegna Aristotele. Ora, come l’occupare la libertà della patria può essere cosa eleggibile in ogni tempo? Per la parte dell’occupante, potrà o vorrà consultare vie via il volere degli occupati? Saprà o vorrà egli conoscere se fu spontaneo davvero, e universale il moto che lo spinse in alto, o quando declini, o quando cessi? Per la parte degli occupati, non può essere a meno che non sia momentanea afflizione e infermità della patria: avvegnachè la patria consista nella fida cittadinanza alla quale consacriamo affetti, reverenza, e, al bisogno, le sostanze e la vita; e questa tolta, la città in cui viviamo non può chiamarsi patria altrimenti, nè merita i mentovati sacrificj. E se la patria è più che madre, chi può ridurre in servitù la propria madre? Se questo offerisse la madre, come insana non si deve ascoltare; se questo accettasse il figliuolo, come empio si deve aborrire. E notate, che simili usurpazioni, come odiosissime, vanno circondate da simulacri bugiardi di libera dedizione; e Giulio Cesare stesso ordinò, nei lupercali lo presentassero di una corona. Inoltre, la libertà, dopo la vita, è preziosissima cosa: ora quanto più ci torna cara una cosa, tanto meno se ne presume il dono; e quando pure potesse alienarsi, potremo supporre ceduta legalmente la libertà in un momento di ebrezza, di furore o di errore? Finalmente la città inferma, immaginiamo, che chiami un cittadino a racconciarle il freno; per certo lo chiama e lo desidera fino a tanto che sia stato conseguíto un simile scopo. Ora, [pg!73] o il cittadino è capace a compiere il presagio della patria, o no: se capace, soddisfaccia al bisogno per cui venne chiamato, e si parta; o non è capace, manca al fine, e si parta. Ma io forse mi affatico a dimostrare quello che non abbisogna punto di prova; quale presunzione, quale insania è mai questa di concludere per via di argomento ciò che la natura e Dio scolpivano nel nostro cuore? — E Lionardo Salviati scrivendo le riferite sentenze, forse non le credeva; lo fece per apparato di eloquenza, o piuttosto per amplificazione rettorica, e si accôrse, comecchè tardi, del torto: ma ormai non era più tempo a ripararlo; sicchè non n’ebbe in seguito mai il viso lieto, maledì l’ora che apprese a scrivere prose, e sconfortato dai disinganni, atterrito da memorie di sangue, supplicò Dio, che lo intese, ad abbreviargli una vita tanto male impiegata in disutile della verità e degli uomini da lui pure amati ardentissimamente.
Rimarrebbe far conoscere adesso quanto nelle lettere il Salviati nostro valesse; ma non lo concedendo, com’io vorrei, la indole di questo libro, m’ingegnerò come meglio io possa, stringendo in poco il molto. Nelle lingue latina e greca egli fu intendentissimo, della italiana maestro solenne; più apprese, e acquistò tesoro maggiore di dottrina di quella che insegnasse o mettesse fuori, secondo l’uso di quei letterati, i quali, meglio che ad altro, possiamo assomigliare alle arche degli avari; compose copia di poesie, gravi e giocose, che come piace a [pg!74] Dio ai giorni nostri ignoriamo, e non istampansi. Dettò a venti anni il Dialogo dell’Amicizia, in cui introduce Girolamo Benivieni a favellare delle lodi dell’amicizia a Iacopo Salviati e a Piero Ridolfi. La occasione sarebbe stata commuovente davvero, fingendo egli che Girolamo per la perdita dell’amicissimo suo Pico della Mirandola, portentoso giovane, chiamato la fenice degl’ingegni, si fosse deliberato lasciarsi morire; ma poi, di repente mutato consiglio, convertì in gioia il dolore, pensando che Dio aveva, come meritevolissimo, chiamato per tempo il Pico al premio dei Santi: ma la parola priva di calore, le distinzioni scolastiche, il difetto di fantasia e di passione, muovono a tutto altro che a piacere o a pietà, e il fastidio precede di troppe pagine il laus Deo. Le commedie, la Spina e il Granchio, e’ sono uno impasto fatto con lievito avanzato nella madia di Plauto e di Terenzio, sicchè pensate voi se infortito! — Solite balie mezzane, soliti bari e truffatori, e vecchi che credono tutto, e vicende impossibili, e riconoscimenti inverisimili, e riboboli fiorentini, e favella dura, sicchè noi restiamo maravigliati come la gente prendesse diletto a coteste rappresentanze che oggi oseremmo appena imporre come penitenza dei peccati. Delle cinque lezioni sopra un sonetto del Petrarca, è da dirsi che ci somministrano piuttosto la misura della pazienza grandissima dei nostri padri, che del grande ingegno dell’oratore. Le orazioni, le funebri in ispecie, paiono proprio fiori da morto. [pg!75] Sotto il nome dello Infarinato, contristò con acerbe scritture l’anima dolorosa di Torquato Tasso; ma la Gerusalemme rimane, e cotesti scritti non si leggono più da nessuno: e questa azione fa torto al Salviati come scrittore e come uomo, seppure anche in questo non lo scusa la sua cieca devozione per casa Medici. Castrò, come si diceva in quei tempi, il Decamerone di Giovanni Boccaccio; ma i posteri hanno riso della castrazione, e, lasciato al Salviati il frutto della castrazione, hanno voluto il Boccaccio intero. Grande però fu la sua venerazione per questo sommo scrittore, e scrisse tre volumi di Avvertimenti intorno alla lingua ricavati dal Decamerone: questi volumi possono anche ai giorni nostri, e forse più che mai nei giorni presenti, consultarsi dagli studiosi della gloriosissima nostra favella. La lingua adoperata dal Salviati è pura, ma non dice nulla; pare un ornamento di cadavere: non idee, non pensieri, non immaginazioni; costretto a evitare il grande, che sta nel vero, forza è che ricorra al falso, e già vediamo spuntare in lui la sinistra aurora del secento. Di ciò sia prova questa figura della Orazione per la incoronazione di Cosimo I: — «Queste mura, Beatissimo Padre, e queste case, e questi tempii, pare che ardano del desiderio di presentarsi davanti ai piedi di Vostra Santità; e questo fiume, e queste piaggie, e questi monti, par che piedi desiderino per venire; e questi mari e questo cielo, lingua per favellare, e per potere di tanto beneficio, se non quello [pg!76] che hanno in animo, rendervi almeno qualche grazia, e presenzialmente riconoscersi debitori.» — Parole copiose, eloquenza nessuna; epiteti, aggiunti, riempitivi a ribocco; un periodo intramezzato vie via da molti altri periodi tra loro parimente rompentisi, sicchè la locuzione procede confusa, ardua, imbarazzata, e sopra modo penosa. Parini reputò potesse leggersi con profitto: io, tranne gli Avvertimenti che ho detto sopra, non lo credo; e Annibale Caro, sebbene indirizzasse