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e dunque l'arte, il modo d'essere, lo stile d'uno scrittore si distingue da quello dell'altro: lo Swift dal Fielding, lo Sterne dallo Swift e dal Fielding, il Dickens dallo Swift e dal Fielding e dallo Sterne e così via.

      Le relazioni che questi scrittori umoristici inglesi possono avere con l'umore nazionale sono affatto secondarie e superficiali come quelle che essi possono aver fra loro, e non hanno per la valutazione estetica importanza.

      Quel che di comune possono aver tra loro questi scrittori non deriva dalla qualità dell'umore nazionale inglese, ma dal solo fatto ch'essi sono umoristi, ciascuno sì a suo modo, ma umoristi tutti veramente, scrittori cioè nei quali avviene quello speciale processo intimo e caratteristico da cui risulta l'espressione umoristica. E soltanto per questo, non Arrigo Heine e il Rabelais e il Montesquieu e basta, ma tutti i veri scrittori umoristici d'ogni tempo e d'ogni nazione possono andare a schiera con quelli. Non però Aristofane, nel quale quel processo non avviene affatto. In Aristofane non abbiamo veramente il contrasto, ma soltanto l'opposizione. Egli non è mai tenuto tra il sì e il no; egli non vede che le ragioni sue, ed è per il no, testardamente, contro ogni novità, cioè contro la retorica, che crea demagoghi, contro la musica nuova, che, cangiando i modi antichi e consacrati, rimuove le basi dell'educazione e dello Stato, contro la tragedia d'Euripide, che snerva i caratteri e corrompe i costumi, contro la filosofia di Socrate, che non può produrre che spiriti indocili e atei, ecc. Alcune sue commedie son come le favole che scriverebbe la volpe, in risposta a quelle che hanno scritto gli uomini calunniando le bestie. Gli uomini in esse ragionano e agiscono con la logica delle bestie, mentre nelle favole le bestie ragionano e agiscono con la logica degli uomini. Sono allegorie in un dramma fantastico, nel quale la burla è satira iperbolica, spietata[16]. Aristofane ha uno scopo morale, e il suo non è mai dunque il mondo della fantasia pura. Nessuno studio della verosimiglianza: egli non se ne cura perchè si riferisce di continuo a cose e a persone vere: astrae iperbolicamente dalla realtà contingente e non crea una realtà fantastica, come, ad esempio, lo Swift. Umorista non è Aristofane, ma Socrate, come acutamente osserva Teodoro Lipps[17]: Socrate che assiste alla rappresentazione delle Nuvole e ride con gli altri della derisione che fa di lui il poeta, Socrate che «versteht den Standpunkt des Volksbewusstseinz, zu dessen Vertreter sich Aristophanes gemacht hat, und sieht darin etwas relativ Gutes und Vernünftiges. Er anerkennt eben damit das relative Recht derer, die seinen Kampf gegen das Volksbewusstsein verlachen. Damit erst wird sein Lache zum Mitlachen. Andererseits lacht er doch über die Lacher. Er thut es und kann es thun, weil er des höheren Rechtes und notwendigen Sieges seiner Anchauungen gewiss ist. Eben dieses Bewusstsein leuchtet durch sien Lachen, und lässt es in seiner Thorheit logisch berechtigt, in seiner Nichtigkeit sittlich erhaben erscheinen». Socrate ha il sentimento del contrario; Aristofane, dunque, se mai, può esser considerato umorista, soltanto se intendiamo l'umorismo nell'altro senso molto più largo, e per noi improprio, in cui siano compresi la burla, la baja, la facezia, la satira, la caricatura, tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni. Ma in questo, senso anche tanti e tant'altri scrittori faceti, burleschi, grotteschi, satirici, comici d'ogni tempo e d'ogni nazione dovrebbero esser considerati umoristi.

      L'errore è sempre quello: de la distinzione sommaria.

      Sono innegabili le diverse qualità delle varie razze, è innegabile che la plaisanterie francese non è l'inglese come non è l'italiana, la spagnuola, la tedesca, la russa, e via dicendo; innegabile che ogni popolo ha un suo proprio umore; l'errore comincia quando quest'umore, naturalmente mutabile nelle sue manifestazioni secondo i momenti e gli ambienti, è considerato, come comunemente il volgo suol fare, quale umorismo; oppure quando per considerazioni esteriori e sommarie si afferma sostanzialmente diverso negli antichi e nei moderni; e quando in fine, per il solo fatto che gli Inglesi chiamarono humour questo loro umore nazionale, mentre gli altri popoli lo chiamarono altrimenti, si viene a dire che soltanto gl'inglesi hanno il vero e proprio umorismo.

      Abbiamo già veduto che, molto prima che quel gruppo di scrittori inglesi del sec. XVIII si chiamasse degli umoristi[18], in Italia avevamo avuto e umidi e umorosi e umoristi. Questo, se si vuol discutere sul nome. Se si vuol poi discutere intorno alla cosa, è da osservare innanzi tutto che, intendendo in questo senso largo l'umorismo, tanti e tanti scrittori che noi chiamiamo burleschi o ironici o satirici o comici ecc., sarebbero chiamati umoristi dagli Inglesi, i quali sentirebbero in essi quel tal sapore che noi sentiamo nei loro scrittori e non sentiamo più nei nostri per quella particolarissima ragione, che con molto accorgimento fu messa in chiaro dal Pascoli. «C'è, — disse il Pascoli, — in ogni lingua e letteratura un quid speciale e intraducibile, che pochi sanno percepire nella lingua e letteratura lor propria e avvertono, invece, senza difficoltà nelle altrui. Ogni lingua straniera, pur da noi non intesa, vi suona all'orecchio più, dirò, mirabilmente, che la vostra. Un racconto, una poesia, esotici, vi sembrano più belli, anche se mediocri, di molte belle cose nostrane; e tanto più, quanto più conservano di quell'essenza nazionale. Ora non crediate che la vostra lingua e letteratura non abbiano a fare il medesimo effetto negli altri che quelle altre in noi!»

      Una prova di questo fatto si può avere in ciò che W. Roscoe scrisse nel cap. XVI, § 12 della sua opera Vita e pontificato di Leon X, a proposito del Berni. Il Roscoe, inglese, e che perciò di quel che comunemente nel suo paese s'intende per humour doveva aver coscienza, scrisse che le facili composizione del Berni e del Bini e del Mauro, ecc. «non è improbabile che abbiano aperta la strada ad una simile eccentricità di stile in altri paesi» e che «in verità può concepirsi l'idea più caratteristica degli scritti del Berni e dei compagni e seguaci di lui col considerare esser quelli in versi facili e vivaci la stessa cosa, che sono le opere in prosa di Rabelais, di Cervantes e di Sterne».

      E non ci dà Antonio Panizzi, che lungamente visse in Inghilterra e degli scrittori nostri scrisse in inglese, una definizione dello stile del Berni, che risponde in gran parte a quella che il Nencioni poi volle dare dell'umorismo? «I precipui elementi dello stile del Berni — dice il Panizzi —: sono: l'ingegno che non trova somiglianza tra oggetti distanti e la rapidità onde subitamente connette le idee più remote; il modo solenne onde allude ad avvenimenti ridicoli e proferisce un'assurdità: l'aria d'innocenza e d'ingenuità con che fa osservazioni piene d'accorgimento e conoscenza del mondo, la peculiar bonarietà con che sembra riguardare con indulgenza... gli errori e le malvagità umane;[19] la sottile ironia che egli adopera con tanta apparenza di semplicità e d'avversione all'acerbezza; la singolare schiettezza con che pare desideroso di scusare uomini e opere nello stesso momento che è tutto inteso a farne strazio». A ogni modo, è certo che il Roscoe sentiva nel Berni e negli altri nostri poeti bajoni lo stesso sapore che sentiva negli scrittori suoi connazionali dotati di humour.

      E non lo sentiva forse il Byron nel nostro Pulci, di cui tradusse finanche il primo canto del Morgante? E lo stesso Sterne non lo sentiva finanche nel nostro Gian Carlo Passeroni (Passeroni dabben', come lo chiamava il Parini), quel buon prete nizzardo che nel canto XVII, parte III del suo Cicerone ci fa sapere (str. 122ª):

      E già mi disse un chiaro letterato

      Inglese, che da questa mia stampita

      Il disegno, il modello avea cavato

      Di scrivere in più tomi la sua vita[20]

      E pien di gratitudine e d'amore

      Mi chiamava suo duce e precettore.

      E, d'altro canto, non risente proprio per nulla degli scrittori francesi del grand siècle e anche da altri che non appartengono a questo, quel gruppo di umoristi inglesi di cui abbiamo or ora fatto parola?

      Il Voltaire, parlando dello Swift nelle sue Lettres sur les Anglais dice: «Mr. Swift est Rabelais dans son bon sens et vivant en bonne compagnie. Il n'a pas, à la veritè, la gaîté du premier, mais il a tout la finesse, la raison, la choix, le bon goût qui manquent à nostre curé de Meudon[21]. Ses vers sont d'un goût singulier et presque inimitable; la bonne plaisanterie est son partage en vers et en pros; mais pour le bien entendre, il faut faire un petit voyage dans son pays».

      Dans son pays, va bene; ma c'è anche chi vuol dire che bisognerebbe far pure un piccolo viaggio alla luna in compagnia di Cyrano de Bergerac.

      E

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