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del filo sembrava confusa. “Perché mi chiami su questo numero?”

      “Ho bisogno di aiuto, V.”

      “Che succede?” Chiese Veronika preoccupata.

      Karina non sapeva da dove cominciare. “C'è stato un incontro”, disse. “Tra Kozlovsky e Harris...”

      “Ho visto la notizia”. Veronika capì immediatamente. “Tu? Eri l'interprete in quell'incontro?”

      “Sì”. Karina raccontò rapidamente quello che era successo, dal suo tempo trascorso con i due presidenti alla fuga dall'agente dei servizi segreti. Cercò di mantenere la voce ferma mentre concludeva: “Se mi trovano, mi uccideranno, V.”

      “Mio Dio”, disse Veronika senza fiato. “Karina, devi dire a qualcuno quello che sai!”

      “Lo sto dicendo a te. Non capisci? Non posso portarlo ai media. Lo intercetteranno. Loro negheranno. Sei l'unica di cui posso fidarmi. Devo portarti gli orecchini”.

      “Li hai?”, Chiese Veronika. “Hai registrato l'incontro?”

      “Sì. Ogni parola”.

      Sua sorella ci pensò per un momento. “La FIS ha un collegamento a Richmond. Puoi andare lì?”

      Veronika, la sorella maggiore di Karina da due anni era ai vertici del Foreign Intelligence Service, la versione ucraina della CIA. Non era un segreto per Karina che il FIS avesse diversi contatti negli Stati Uniti. Il pensiero di essere sotto la loro protezione era attraente, ma si rese conto che non poteva rischiare.

      “No”, disse alla fine. “Si aspetteranno che io prenda un aereo. Sono certa che sorveglieranno attentamente aeroporti e autostrade”.

      “Allora dirò loro di venire da te...”

      “Non capisci, Veronika. Se mi trovano, mi uccideranno. E chiunque sia con me. Non voglio avere questa responsabilità”. La voce le si bloccò in gola. Stando lì, nell'oscuro ufficio sul retro di un losco negozio di cellulari, gli eventi delle ultime ore finalmente la raggiunsero. Ma non avrebbe lasciato che le sue emozioni prendessero il sopravvento. “Ho paura, V. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di una via d'uscita”.

      “Non permetterò che ti accada niente”, promise sua sorella. “Ho un'idea. Chiederò al nostro contatto di segnalare anonimamente a DC Metro che l'incontro è stato registrato...”

      “Cosa? Sei pazza?” Sbottò Karina.

      “E farò in modo che anche i media ne siano informati”.

      “Cristo, V, hai perso la testa!”

      “No. Ascoltami, Karina. Se sanno che possiedi una registrazione, allora avrai una merce di scambio. Senza quella, ti vorranno morta. In questo modo, ti vorranno viva. E se la comunicazione viene da Richmond, crederanno che tu sia fuggita dalla città. Nel frattempo, ti porterò fuori da qui”.

      “Non voglio che invii uno dei tuoi uomini a recuperarmi”, ribatté Karina. “Non voglio che nessuno venga ucciso a causa mia”.

      “Ma non puoi farcela da sola, sorella”. Veronika rimase in silenzio per un momento prima di aggiungere: “Penso che potrei conoscere qualcuno che può aiutarti”.

      “Il FIS?” Chiese Karina.

      “No. Un americano”.

      “Veronika...”

      “È un ex agente CIA”.

      Fu troppo per lei. Sua sorella aveva davvero perso la testa, e Karina glielo disse.

      “Ti fidi di me?” Chiese Veronika.

      “Un minuto fa avrei detto di sì...”

      “Fidati di me adesso, Karina. E fidati di quest'uomo. Ti dirò dove andare e quando essere lì”.

      Karina sospirò. Ma quale scelta aveva? V. aveva ragione. Non poteva eludere i servizi segreti, i russi e chiunque altro da sola. Le serviva aiuto. E si fidava di sua sorella, anche se quel piano le sembrava assurdo.

      “Va bene. Come faccio a riconoscere quest'uomo?”

      “Se è ancora bravo nel suo lavoro, non ne avrai bisogno”, disse Veronika. “Sarà lui a riconoscerti”.

      CAPITOLO CINQUE

      Sara si guardò nello specchio del bagno mentre si sistemava la coda. Odiava i suoi capelli. Erano troppo lunghi: non li tagliava da mesi. Aveva delle terribili doppie punte. Circa sei settimane prima aveva lasciato che Camilla le facesse una tinta rossa, e anche se sul momento le era piaciuto molto il risultato, stava iniziando a spuntare una fastidiosa ricrescita bionda. Non faceva un bell'effetto.

      Odiava la polo blu scuro che doveva indossare al lavoro. Era troppo grande per la sua corporatura sottile, e aveva le parole “Swift Thrift” stampate in serigrafia sul petto. Le lettere erano sbiadite, i bordi rovinati dai lavaggi ripetuti.

      Odiava andare al negozio dell'usato, con il suo odore costante di falene e sudore stantio, odiava sforzarsi di essere gentile con le persone maleducate. Odiava il fatto che a sedici anni e senza un diploma di scuola superiore il massimo che potesse percepire fossero nove dollari all'ora.

      Ma aveva preso una decisione. Ormai era quasi completamente indipendente.

      La porta del bagno si aprì improvvisamente. Tommy la sorprese in piedi di fronte allo specchio.

      “Che diamine, Tommy!” Urlò Sara. “Ci sono io!”

      “Perché non hai chiuso a chiave la porta?” ribatté lui.

      “Era chiusa, o sbaglio?”

      “Beh, datti una mossa! Devo pisciare!”

      “Vattene!” Chiuse la porta e il ragazzo rimase fuori dal bagno ad imprecare. La vita con i coinquilini era tutt'altro che piacevole, ma dopo un anno si era abituata. Forse era passato anche più di un anno. Dovevano essere tredici mesi ormai, pensò tra sé e sé.

      Si passò un po' di mascara sulle ciglia e diede un'ultima occhiata allo specchio. Va abbastanza bene, si disse. Non le piaceva truccarsi molto, nonostante i tentativi di persuasione di Camilla. Il suo corpo cambiava velocemente.

      Uscì dal bagno, che dava sulla cucina, e vide Tommy sporgersi dal lavandino e tirarsi su i pantaloni.

      “Dio mio”. Sussultò. “Dimmi che non hai fatto pipì nel lavandino”.

      “Ci hai messo troppo”.

      “Sei disgustoso”. Si avvicinò al vecchio frigorifero beige e tirò fuori una bottiglia d'acqua, non avrebbe più bevuto l'acqua del rubinetto, e, nel richiuderla, una lavagnetta attirò la sua attenzione.

      Sussultò di nuovo.

      Sulla porta del frigorifero c'era una lavagna magnetica con i nomi degli inquilini scritti in pennarello nero. Sotto ogni nome c'era scritto un numero. Ogni mese dovevano dividersi le spese dell'affitto e delle bollette. Se non potevano pagare la loro quota, avevano tempo tre mesi per cancellare il loro debito, altrimenti avrebbero dovuto andarsene. E il debito sotto il nome di Sara era il più grande.

      Quella casa non era certo il peggior posto in cui vivere a Jacksonville. La vecchia casa aveva bisogno di alcune riparazioni, ma non era un disastro. C'erano quattro camere da letto, tre doppie e una adibita a studio e magazzino.

      Il proprietario, il signor Nedelmeyer, era un tedesco sulla quarantina che aveva un sacco di proprietà come questa nell'area metropolitana di Jacksonville. Era piuttosto tranquillo; voleva che lo chiamassero semplicemente “Needle”, che a Sara sembrava un soprannome da spacciatore. Ma Needle era una persona alla mano. Non gli importava se ospitassero degli amici o se facessero delle feste occasionali. Non gli importava nemmeno delle droghe. Aveva dato loro solo tre regole: se vieni arrestato, sei fuori. Se non riesci a pagare il debito dopo tre mesi, sei fuori. Se aggredisci un altro inquilino, sei fuori.

      Al

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