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rabbia non fece che aumentare. “Te l'ho detto mentre venivamo. Se per cinque minuti la smettessi di parlare di te stesso e ascoltassi non avresti bisogno di pensare nulla!”

      “Ehi”, ribatté Greg. “Non puoi parlarmi in questo modo...”

      “Perché no?” lo sfidò. “Tua madre mi farà qualcosa? Sì, Greg, lo so, è stata sindaco di Baltimora per due anni. Lo dici ad ogni frase. A nessuno frega niente!”

      Zero arrossì, ma non disse nulla.

      “Maya”. Maria parlò piano, ma con fermezza. “So che sei arrabbiata, ma è stato solo un incidente. Non c'è motivo di essere scortese. Siamo adulti...”

      “Oh”. Maya rise nervosamente. “Penso che ci siano tutte le ragioni per essere scortesi. Vuoi che te le elenchi?” Era abbastanza intelligente da sapere cosa stava succedendo, ma abbastanza arrabbiata da non preoccuparsene. La verità era una; era ancora molto arrabbiata con suo padre, nonostante cercasse di negarlo anche a sé stessa. Ma aveva incanalato tutta quell'ostilità e l'ira nello studio e nei suoi obiettivi. In quel momento, senza nulla di tutto ciò e seduta di fronte all'uomo che le aveva causato quel dolore, tutto riaffiorò in superficie. Il suo viso era caldo e il battito del suo cuore aveva raddoppiato il ritmo.

      All'improvviso si rese conto di non poter evocare un solo ricordo felice della sua infanzia senza la consapevolezza lancinante che la vita di suo padre, e per estensione gran parte della sua, era una grande bugia avvolta in mille bugie più piccole. La luce più brillante della sua giovane vita, sua madre, era stata crudelmente e freddamente uccisa a causa sua, per mano di un uomo di cui Maya era stata abbastanza sciocca da fidarsi.

      E suo padre non solo lo sapeva. Aveva lasciato che quell'uomo, John Watson, se ne andasse.

      “Maya”, iniziò suo padre. “Per favore”.

      “Tu non hai il diritto di parlare!” sbottò. “È morta per colpa tua!” Sorprese persino sé stessa con l'intensità della sua affermazione, e poi fu di nuovo sorpresa del fatto che suo padre non reagisse con altrettanta rabbia. Invece si rannicchiò, fissando il tavolo come un cucciolo preso a calci.

      “Senti, non so cosa stia succedendo qui”, disse dolcemente Greg, “ma penso che toglierò il disturbo...”

      Stava per alzarsi, ma Maya gli puntò al volto un dito minaccioso. “Siediti! Tu non vai da nessuna parte”.

      Greg si abbassò immediatamente sulla sua sedia come se avesse ricevuto un ordine da un superiore. Maria la guardò con distacco, un sopracciglio leggermente arcuato, come in attesa di vedere come sarebbe andata a finire. Le spalle di suo padre si piegarono e il suo mento quasi toccò la clavicola.

      “Maledizione”, mormorò Maya mentre si passava le mani tra i capelli corti. Pensava di aver superato tutto questo, dopo le ondate di emotività, dopo i tentativi di conciliare l'idea di un professore sorridente e umoristico che chiamava papà con un agente segreto che era stato responsabile del trauma che avrebbe portato con sé per il resto della sua vita. Dopo i singhiozzi che non poteva trattenere ogni volta che, cambiandosi, vedeva le sottili cicatrici bianche del messaggio che aveva inciso nella sua stessa gamba, quando pensava che sarebbe morta e aveva usato le sue ultime forze per lasciare un indizio su dove si trovasse la sorella.

      Non provare a piangere ora.

      “È stato un errore”. Si alzò e si avviò verso la porta. “Non voglio mai più rivedervi”.

      Si rese conto di essere troppo arrabbiata per piangere. Almeno quello lo aveva superato.

      Maya scivolò al volante dell'auto a noleggio e girò la chiave nel blocchetto di accensione prima che Greg uscisse correndo dietro di lei.

      “Maya!” chiamò. “Ehi, aspetta”. Tentò di tirare la maniglia del lato passeggero, ma lei aveva già chiuso a chiave le portiere. “Forza. Fammi entrare”.

      Iniziò a fare retromarcia.

      “Non è divertente!” Sbatté un palmo sul finestrino. “Come torno a casa?”

      “Mi hai parlato tanto di tua madre”, gli urlò attraverso il finestrino chiuso. “Prova a chiamarla”.

      E poi se ne andò, mentre Greg, con le mani sulla testa e incredulo, si faceva sempre più piccolo nello specchietto retrovisore. Sapeva che avrebbe vissuto l'inferno in accademia per quello che era successo, ma in quel momento non le importava. Perché quando lasciò la casa di suo padre, le sembrò che un peso si fosse sollevato dalle sue spalle. Era andata lì quel giorno per un senso di responsabilità. Le era sembrato un dovere morale.

      Ma si era resa conto che sarebbe stato meglio se non avesse più rivisto loro né quella casa. Stava bene da sola. Non c'era stata una riconciliazione, e mai ci sarebbe stata. Sua madre era morta e ora anche suo padre per lei era morto.

      CAPITOLO QUATTRO

      Karina Pavlo era seduta nell'angolo più nascosto del bar, dietro i rubinetti della birra ma con una chiara visione dell'ingresso principale. Aveva scelto un posto in cui nessuno avrebbe mai pensato di cercarla, uno squallido bar nel quadrante sud-est di Washington, non lontano da Bellevue. Non era il migliore dei quartieri e il giorno stava rapidamente volgendo al crepuscolo, ma non pensava a ladri o rapinatori. Aveva problemi più grandi.

      Inoltre, aveva appena compiuto lei stessa un piccolo furto.

      Dopo essere sfuggita all'agente dei servizi segreti ed essersi nascosta per un po' in libreria, Karina si era arrischiata a tornare in strada per meno di un isolato prima di entrare in un grande magazzino. A parte il fatto che era senza scarpe, era ancora ben vestita e, tenendo la testa alta e camminando con sicurezza per evitare controlli, sembrava un'imprenditrice della classe medio-alta.

      Si era diretta direttamente al reparto donna e aveva preso alcuni abiti casual dallo scaffale, capi che non avrebbero attirato molta attenzione. Aveva lasciato la gonna, la camicetta e la giacca nel camerino, aveva indossato un paio di scarpe da ginnastica ed era uscita da un altro ingresso del negozio senza dare nell'occhio. Due isolati dopo si era fermata in un altro negozio e, dopo aver fatto finta di guardare i vestiti per alcuni minuti, era uscita con un paio di occhiali da sole e una sciarpa di seta che si era legata intorno ai capelli scuri.

      Di nuovo in strada, prese di mira un uomo paffuto in una polo a strisce con una macchina fotografica appesa al collo. Non avrebbe potuto essere più evidente che fosse un turista. Aveva finto di scontrarsi con lui goffamente, scusandosi immediatamente ansimando. Lui aveva aperto la bocca per urlarle qualcosa, ma si era subito accorto che era una bella ragazza mora. Aveva borbottato delle scuse e si era allontanato rapidamente, ignaro del fatto di non avere più con sé il suo portafoglio. Karina era sempre stata veloce con le mani. Non avrebbe mai voluto rubare, ma quello era un momento di necessità.

      Il portafoglio conteneva poco meno di cento dollari in contanti. Aveva preso i soldi e aveva lasciato cadere il resto, la carta d'identità, le carte di credito e le foto dei figli, in una grande cassetta per la posta lì vicino.

      Alla fine. aveva preso un taxi verso est, dall'altra parte della città, ed era entrata in quel bar dalle finestre scure e pregno dell'odore di birra economica, si era seduta e aveva ordinato una bibita.

      La televisione sospesa sopra i rubinetti della birra era accesa e sintonizzata su una stazione di notizie, stava trasmettendo un aggiornamento sui risultati sportivi della sera prima. Sorseggiò la soda, cercando di calmarsi e di riflettere sulle sue prossime mosse. Non poteva tornare in albergo; sarebbe stato un suicidio. Inoltre, non avrebbero trovato altro che vestiti e cosmetici. Aveva un numero di telefono memorizzato, ma non era sicura di voler utilizzare una cabina telefonica. Stavano diventando sempre più rare, anche nelle città. I servizi segreti avevano il suo cellulare e avrebbero potuto facilmente intercettare le chiamate dalle cabine pubbliche.

      Aveva pensato di chiedere al barista di usare il suo telefono, ma il contatto che avrebbe dovuto chiamare era un numero internazionale e ciò avrebbe attirato un'indebita attenzione.

      Quando Karina rivolse

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