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contraffaceva il medico e la voce di lui oppressa dal perenne intasamento nasale: – "SOFFRO DI LITIASI, SIGNORA MIA!" – CHE SAREBBE? – "MAL DI PIETRA, SIGNORA MIA, MAL DI PIETRA!".

      Marta sorrideva dal letto pallidamente, seguendo con gli occhi i versi di Anna Veronica, e anche Maria e la madre sorridevano.

      La sera, prima di tornarsene a casa, Anna recitava il rosario con la signora Agata e con Maria, nella camera di Marta.

      La malata ascoltava il borbottìo della preghiera nella camera debolmente rischiarata da un lume guarnito d'una ventola di mantino verde; guardava le tre donne inginocchiate, curve sulle seggiole, e spesso, alla litanìa, rispondeva anche lei alle invocazioni di Anna Veronica:

      – ORA PRO NOBIS.

      Quel senso di serenità, fresca, dolce e lieve, che suol dare la convalescenza, le si turbava al soprav-venire della sera. Le pareva che quel lume riparato dal mantino verde fosse poco, troppo poco contro l'ombra che invadeva la casa; e un'ambascia cupa, un'oscura costernazione, un'impressione di vuoto, di sgomento sentiva venirsi dalle altre stanze, in cui spingeva trepidante, dal letto, il pensiero: subito ne lo ritraeva, affisando di nuovo gli occhi al lume, per sentirne il conforto familiare. In quell'ombra, in quel bujo delle altre stanze, il padre era scomparso. Di là egli, ormai, non c'era più. Nessuno più, di là… L'ombra. Il bujo. Che incubo, è vero, era egli stato per lei! Ma a qual prezzo, ora, se n'era libe-rata… La cupa ambascia, l'oscura costernazione, il senso di vuoto, di sgomento, non le venivano piuttosto dal pensiero di lui?

      – ORA PRO NOBIS.

      Spesso si addormentava con la preghiera su le labbra. La madre le giaceva a fianco, su lo stesso let-to; ma stentava tanto, ogni sera, a prender sonno, non solo per il ricordo vivo e straziante del marito, ma anche per la preoccupazione assidua in cui la teneva il nipote, Paolo Sistri, a cui era affidata or-mai l'esistenza della famiglia.

      Paolo, dopo la disgrazia, non veniva più, puntualmente, ogni sera. Bisognava che la zia mandasse a chiamarlo due e tre volte per aver notizie della concerìa; e, quando finalmente si risolveva a venire, appariva più abbattuto e sbalordito di prima.

      Una sera le si presentò con la testa fasciata.

      – Oh Dio, Paolo, che t'è accaduto?

      Niente. In una stanza della concerìa, al bujo, qualcuno (e forse a bella posta!) s'era dimenticato di richiudere la… come si chiama? sì… la… la caditoja, ecco, su l'assito, ed egli, passando, patapùmfete! giù: aveva ruzzolato la… la come si chiama di legno… la scala della cateratta, già! Per miracolo non era morto. Ma tutto bene, benone, alla concerìa. Forse però, ecco… sarebbe stato meglio tentare adesso una certa concia alla francese.. – quella tal maniera di concia per la quale… ecco, già! si ado-pera in polvere la… come si chiama… la scorza di leccio, di sughero e di cerro; mentre, alla maniera nostrana, con la vallonèa spenta nell'acqua di mortella…

      – Per carità, Paolo! – lo interrompeva la zia, a mani giunte. – Non facciamo novità! Andava tanto be-ne la concia all'uso nostro finché ci badò la buon'anima.

      – Gesù! che c'entra? – le rispondeva Paolo, saccente, ora che lo zio non c'era più. – E` un'altra cosa! Perché… vede com'è? Si piglia… prima che si pigliava? l'acqua cotta. Oh, e ora si piglia l'acqua pu-ra…, aspetti! con la polvere di leccio, oppure…

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