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stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli, in cui la sua città s'era liberata da sola degli occupanti tedeschi, durante le quali erano rimasti uccisi molti colleghi della Questura napoletana, fra cui il suo diretto aiutante di quel tempo, un certo brigadiere Marino Bordin di cui parlava con ammirazione. Nonostante l'esteriore allegrezza, Vittorio era persona fondamentalmente triste. Pochi mesi dopo il tentato assassinio del Marradi, Vittorio, che s’era sposato nel maggio dell'anno precedente con una donna troppo giovane, una diciottenne figlia d'un collega conosciuta al ballo annuale delle debuttanti, era rimasto vittima d’un grave dispiacere coniugale. S'era tenuto dentro il suo dolore per molto finché, un giorno della primavera del '58 in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato perché vi cadeva il secondo anniversario del suo matrimonio, s'era confidato con me, "col mio poeta e amico preferito": Era accaduto l'anno prima che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un ricco importatore americano, ch'era a Genova per i propri commerci, e che fosse fuggita con lui a New York, ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi poco dopo con l'amante, com’era stato comunicato a Vittorio per via epistolare dal legale della coppia, su incarico di lei. In Italia non c’era ancora il divorzio per cui Vittorio era rimasto coniugato con la "traditrice"; ma una volta l'amico m'aveva detto, ormai prestavamo entrambi servizio a Torino, che se pur ci fosse stato il divorzio, come cattolico praticante – aveva pronunciato in tono solenne l'ultima parola – non se la sarebbe sentita, di richiederlo. "Sennonché", aveva soggiunto, "malauguratamente" lui aveva "vocazione alla coppia." Insomma, nonostante il suo conclamato cattolicesimo, non era riuscito per molto a rimanersene solo, come avevo presto capito.

      Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei ha diciannove anni... hm... come mia moglie quando mi mollò. Io ne ho di già quaranta. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne2; perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso impacciato; poi: “Va bene, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto e pure che sto forse approfittando un po' troppo di 'sta guagliona, anche se lei mi pare contenta assai del mio affetto e pure del mio... hai capito. Non lo so, spero che comunque il cielo abbia compassione e perdoni."

      "Lo spero", avevo fatto eco meccanicamente, senz’accorgermi d'aver alimentato i suoi dubbi, sui quali si sarebbe arrovellato per anni. Me li avrebbe infine manifestati, in occasione d'un penoso avvenimento di cui dirò più avanti. Avevo soggiunto: "Certo, per voi cattolici è una vita piena di problemi, per me ce ne sono già così tanti altri nella vita che, almeno quelli religiosi, li ho sempre tralasciati."

      "Non sei credente proprio per nulla?" m'aveva interrogato facendosi più serio.

      "Mah, una volta ero del tutto ateo. Adesso… non lo so", avevo risposto esitante: "A volte... ma in definitiva, credo a ciò che vedo; e alla poesia."

      "…e chi te la manda la poesia?" m'aveva incalzato, "la musa... già come si chiamava? Ah, sì, Calliope."

      "Erato, dato che scrivo poesia lirica: Calliope era musa dell'epica."

      "...e va bbuo', la musa in genere, non sottilizziamo, guaglio'. No, era solo per dirti che la poesia è come l'amicizia; quella vera, dico: viene da Dio. Anzi, è uno dei segni dell'amicizia divina."

      Non s'era più parlato per dieci anni di quel rapporto Dio-poesia fino all'ultimo invito quando, a metà cena, Vittorio m’aveva detto: "La sai 'na cosa? O’ premio letterario ti viene da o’ cielo; come la tua poesia. Ricordi che ti dissi tanti anni fa? È Dio la vera e sola Musa."

      "Anche per quelli come me?"

      "Si capisce! Se son puri di cuore, però; e dimmi, tu lo sai perché i versi non dànno soldi?"

      "So che ne direbbero i soldati di monsieur de La Palice: “Perché hanno pochi lettori”."

      "Uh, e chista 'ccà ha da esse 'na risposta?! No, non li dànno perché son cosa dello Spirito Santo; e pure ti dico che la poesia bella viene ai poeti che hanno lo Spirito: tu sarai anche un repubblicano storico, un non credente, ma sei idealista."

      Ebbene, ero rimasto per un momento interdetto: dalla vendita dei venti sonetti a quel potente sei mesi prima, infatti, non avevo scritto più nemmeno un verso.

      ...ma no, avevo concluso in me stesso quella volta, puro caso!

      

      Buon per me che, a differenza dell'amico, fossi rimasto magro e agile come un tempo e mi sentissi in corpo la stessa forza di quand'ero stato ragazzino, altrimenti quel giorno non me la sarei cavata.

      Mancavano solo più due giorni alla mia partenza per New York. Nel primo pomeriggio ero uscito per recarmi alla Gazzetta del Popolo per stendervi un articolo per la terza pagina. In quei tempi senza internet, mentre per le riviste si poteva usare la posta, per i quotidiani, causa i ben più rapidi tempi di pubblicazione, bisognava recarsi fisicamente in sede; solo i corrispondenti esteri avevano il privilegio di dettare l'articolo telefonicamente e talvolta i cronisti, se la notizia era urgente; io e gli altri pubblicisti dovevamo consegnare fisicamente il pezzo scritto a casa, oppure stenderlo direttamente in sede; abitualmente io scrivevo in redazione. Avevo precedentemente collaborato, sempre come esterno pagato a singolo pezzo, a uno dei più importanti fogli italiani, ligure ma con un'edizione torinese, di proprietà del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, capo d'un colossale gruppo economico; ma dopo che, contando sulla mia posizione d'indipendente pubblicista, senza avvisarne alcuno avevo preso a collaborare anche con l'altro giornale, quotidiano avversario delle concentrazioni economiche e favorevole a un’economia sociale, il foglio del Tartaglia Fioretti non aveva più stampato i miei scritti. Al mio perché mai? la risposta era stata esuberanza di costi. Non m'avevano neppur detto: Ti chiediamo di scegliere. M'avevano semplicemente respinto, come s'io fossi stato un loro cavallo improvvisamente bizzoso che, senza bisogno di scuse, non si monta più. Me n'ero indispettito, tanto più riflettendo ch'era stato proprio il Tartaglia Fioretti a comprarmi, un paio di mesi prima, quelle venti poesie da spacciar per sue con l'amante. Avevo finalmente capito che, anche in quell'occasione, ero stato trattato come una cosa che si può acquistare e buttare quando si vuole.

      Il tragitto non era lungo da casa mia in via Giulio, un pezzetto della stessa, via della Consolata, via del Carmine e pochi metri di corso Valdocco dove il giornale aveva sede; ma quel giorno, all’angolo tra lo stesso e via del Carmine, ormai vicinissimo alla mèta, mentre attraversavo sul verde, un furgone parcheggiato era partito all'improvviso puntando dritto su di me. Con un tuffo l’avevo evitato, proprio appena, limitando i danni alle mani spellate; e mentre il mezzo fuggiva, ero riuscito a prendergli la targa. Dopo aver scritto la mia nota al giornale, un poco sotto shock e pensando a chi potessi avere per nemico, m’ero precipitato in Questura da Vittorio. Come avevo pensato, il furgone

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