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d’Ercole. È quello il luogo, il posto, il rifugio sicuro pei ducati larghi. Ma forse avete ancora da dirmi della Santa Giovanna?

      – Quella è arrivata a Bari per le lane; non si aspetta prima di giugno. Così almeno mi ha detto ier l’altro il Sauli, che aveva ricevuto lettere. Ho qui invece il fogliazzo delle spese. Se gli date un’occhiata, essendo ancora giorno…

      – Volete dire che i numeri si leggono male a lume di lucerna? E sia; – soggiunse messer Bartolomeo, – contentiamo questo terribil Passano. Sedete? – diss’egli, facendo un cenno d’invito a Fior d’oro.

      – Fate, fate; – rispose la contessa; – io vi lascio. Quando siete coi numeri, bisogna lasciarvi stare.

      – Capirete, Juana, e perdonerete senz’altro. Son genovese; e il genovese, per vostra norma…

      – Oh, non dicevo per questo; – interruppe la bella. – Che genovese, del resto? Non vi vantate, amico mio. Volevo dire piuttosto che vi c’imbrogliate parecchio.

      – Ah sì, birichina? Ma ciò avviene perchè guardo voi; e allora, povero a me, smarrisco perfino il ricordo della tavola pitagorica.

      – Vedete dunque… – diss’ella con aria di trionfo. – Ragione di più per lasciarvi con messer Giovanni mio genero. Farò allestir la cena un po’ prima, perchè egli avrà appetito, m’immagino.

      – Abbastanza, madonna; – rispose il Passano. – Ho tanto rinsaccato, su quel maledetto cavallo! —

      La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.

      – Povera tavola pitagorica! – gridò egli ridendo. – La vedo brutta.

      – Che c’è? – disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.

      – Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie! – ripetè il capitano Fiesco. – Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?

      – Restate nel sogno; – rispose quell’altro.

      – Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati larghi… e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una commissione per me, ed una commissione urgente.

      – Avete ragione; – rispose il Passano. – Ecco qua, infatti. —

      Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva al capitano Fiesco.

      – Ah, volevo ben dire! – esclamò questi. – Gian Aloise?..

      – Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera; ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale? – No, eccelso signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a Genova lui. – Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua; passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e via di galoppo, che n’ho ancora le reni fiaccate.

      – S’intende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.

      – Messere!..

      – Eh via, non saresti genovese. Hai rinfrescato a San Martino, confessalo; e nota che ti fo grazia di San Fruttuoso. Il secondo bicchiere l’hai bevuto a Nervi; il terzo a Recco, con un rincalzo a Ruta, per ragione della faticosa salita; il quarto a Rapallo, il quinto a Zoagli. Dimmi che non è vero.

      – Siete uno stregone, messere; – disse ridendo il Passano. – Per altro, non sono mai sceso d’arcione.

      – Te lo credo, questo, perchè al debito non sei venuto mai meno. Quanto a rinfrescar l’ugola, non è mai stato un delitto. E dall’oste della Maddalena, poi? Dicono che ce n’abbia bevuto una mezzina anche Dante.

      – Ma sempre stando in arcione; – rispose il Passano. – Furono tutti bicchieri della staffa.

      Il capitano Fiesco s’indugiava in queste celie, per non leggere il foglio che gli aveva consegnato il Passano. La lettera donde si aspetta una noia si dissigilla mal volentieri; si spera sempre in un accidente improvviso che possa dispensarcene. Ma l’accidente non ci fu, e messer Bartolomeo dovette rassegnarsi. Aperse il foglio, e lo spiegò; spiegato che lo ebbe, incominciò a leggere, ed anche ad aggrottare le ciglia, a batter le labbra, a sbuffare.

      – Oh Dio! – esclamò, quand’ebbe finito. – Ma son pur fastidiosi! Io consigli? E che ci ho da veder io? come ho da darne io, che non ho saputo mai domandarne? Che noia! che noia! E ancora dovrò ringraziarlo, il mio eccelso parente, che ha mandato te per messaggero, e non il suo Filippino.

      – Filippino?.. – balbettò il Passano, che non vedeva la ragione dell’essere messo in paragone con quel pezzo grosso.

      – Già, il nostro buon cuginetto Filippino; – riprese il capitano Fiesco. – Quello là, o con un pretesto o con un altro, è sempre da queste parti; due, tre, quattro volte ogni mese. Il giovanotto non ha mai avuto tanto da fare nel capitanato di Chiavari, come dal giorno che ho preso moglie io.

      – Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.

      – Ed io vorrei risalirci, con Fior d’oro tra le braccia, e non ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino s’è messo in mente di toccare il cuore a Fior d’oro. Fa l’occhio pio, lui, ch’è una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li mette a raffronto colle rime amorose dell’Alighieri. Una sera, che ci fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de’ Conti da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto biondino! Quantunque, a farlo a posta, s’è imbattuto in una che i biondi non li vuol neanche per prossimo.

      – O allora, scusate… – si provò a dire il Passano.

      – O allora, caro mio, m’annoia egualmente; – rispose il capitano Fiesco. – Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.

      – La contessa se n’è avveduta?

      – E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare: Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior d’oro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo morire. Quanti pretendenti, mio Dio! – esclamò il capitano Fiesco, sospirando. – Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso che m’hanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, alta mente repostum, come direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci penso… In questa lettera dell’eccelso Gian Aloise non ci sarebbe la zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo; dovunque c’è un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo “intendio„

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