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Il figlio del Corsaro Rosso. Emilio Salgari
Читать онлайн.Название Il figlio del Corsaro Rosso
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Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
Издательство Public Domain
CAPITOLO VI. IL BUCANIERE
Seccare e affumicare sotto semplici capannucce formate di frasche, il piú delle volte malamente intrecciate le pelli e le carni degli animali uccisi a caccia, esprimevasi dagli indiani delle grandi isole del Golfo del Messico col vocabolo bucan, e da quello venne il nome di bucaniere.
Quei formidabili cacciatori, che piú tardi dovevano fornire tanta gente ai filibustieri della Tortue e dare un’infinità di fastidi agli spagnuoli, si erano specialmente stabiliti nell’isola di San Domingo, la piú ricca di selvaggina.
Per la maggior parte erano avventurieri francesi, inglesi e fiamminghi, fuggiti dalle loro patrie o per miseria o per delitti commessi.
Una camicia di grossa tela, sempre lorda di sangue, un paio di calzoni della stessa tela, anche piú sudici, una cintura di pelle non conciata, alla quale erano attaccate una corta sciabola, un paio di coltelli e due borse contenenti la polvere e le palle, un cappellaccio informe e scarpe fabbricate con cuoio di maiale, costituivano la divisa dei bucanieri..
La loro grande ambizione era d’avere un buon archibugio, portante un proiettile del peso di un’oncia, ed una muta di venticinque o trenta cani blood-hound, che impiegavano per la caccia dei buoi selvaggi, allora, come abbiamo già detto, abbondantissimi in San Domingo.
Del resto la sola carne di bue o di maiale, malamente arrostita o tutt’al piú cosparsa di pimento o di sugo di limone, non potendo sempre avere del sale, era il loro cibo giornaliero e per bevanda non avevano che dell’acqua e non sempre pura, abitando di preferenza i dintorni delle paludi, piú frequentati dalla selvaggina grossa, che i boschi immensi che occupavano tutto il centro della grande isola.
Di comodità, quegli intrepidi cacciatori, non cercavano che una capannuccia che non valeva nemmeno quella che si costruiscono i polinesiani o i negri dell’Africa, appena sufficiente a ripararli dalle abbondanti piogge o dagli ardori cocentissimi del sole.
Siccome poi da principio erano senza donne e senza figli, essi avevano presa l’abitudine di vivere due a due o di prendersi un novizio, che non sempre trattavano troppo bene, per aiutarsi scambievolmente.
In quella strana società tutto era in comune e chi sopravviveva all’altro restava erede d’ogni cosa.
Vi era però anche una certa comunanza di beni fra tutti, dimodoché ciò che mancava ad uno, questo andava a prenderselo da un altro, senza nemmeno chiedere il permesso, ed il rifiutarlo era tenuto come una gravissima ingiuria.
Difficilmente perciò avevano questioni fra di loro, e se accadevano, gli amici erano sempre pronti a rappacificarle; se poi i querelanti si ostinavano a non fare la pace, terminavano le questioni a fucilate: guai però se il ferito veniva colpito nella schiena o nei fianchi!
Il reo veniva preso e con un colpo di mazza sul cranio si mandava subito all’altro mondo, poiché quegli avventurieri si ritenevano gente d’onore, quantunque usciti per la maggior parte dai bassifondi delle grandi capitali dell’Europa occidentale.
Né occorre dire se si attenessero alle leggi del loro paese natio, poiché essi credevano di esserne sciolti, dopo aver passato il tropico e aver ricevuto il battesimo di marinai, cerimonia allora molto in uso per coloro che per la prima volta passavano l’equatore.
Forse è per quello che, abbandonati i loro nomi primitivi, ne usavano altri presi a capriccio.
Non abbandonavano invece totalmente la loro religione, fossero francesi, inglesi od olandesi; ma questa consisteva soltanto nel nominare Dio e nel farsi di Lui un’idea quale giovava alle loro abitudini.
Strano era in essi il modo con cui si univano talvolta in matrimonio colle donne, per la maggior parte indiane o prigioniere europee, comperate come schiave alla Tortue.
– Mi dovrai rendere ragione di quanto farai d’ora innanzi con me, – dicevano quei fieri uomini.
Poi, battendo sulla canna del loro infallibile archibugio, aggiungevano con voce minacciosa:
– Ecco quella che mi vendicherà, se tu non mi ubbidirai!
I bucanieri partivano ordinariamente per la caccia allo spuntare del giorno, preceduti dai loro cani e seguiti dall’arruolato.
Un bracco camminava dinanzi alla muta e, scoperto il toro o il cinghiale, dava segno agli altri, i quali correndo ed abbaiando, gli si mettevano intorno finché giungesse il padrone.
Il colpo era quasi sempre sicurissimo e la prima cosa che faceva il cacciatore, se riusciva a gettare a terra la selvaggina, era quella di tagliarle il garretto.
Se la ferita era leggera e la bestia infuriava e caricava, il bucaniere, agilissimo, sapeva mettersi sempre in salvo, arrampicandosi su d’un albero. Di lassú poi finiva facilmente a colpi d’archibugio la bestia, la quale non aveva mai tempo di scappare.
Essa veniva subito scorticata, poi il bucaniere ed il suo arruolato ne traevano uno degli ossi maggiori, lo spezzavano e ne succhiavano il midollo ancora caldo e quella era ordinariamente la loro colazione!
Mentre l’arruolato s’incaricava di tagliare i pezzi migliori da seccare o affumicare e li trasportava nella capanna, il bucaniere continuava la sua caccia, aiutato dai cani, né smetteva finché calava la notte.
Quando poi aveva messo all’ordine quella quantità di pelli sufficiente per costituire un piccolo carico, lo portava alla Tortue o in qualche altro porto tenuto dai filibustieri.
Una esistenza condotta con siffatti esercizi e sostenuta col genere di alimenti che abbiamo accennati, salvava quei terribili cacciatori dalle tante malattie alle quali altri andavano soggetti.
Tutt’al piú li colpiva talvolta una febbre effimera, che spariva prestissimo con semplici profumi di foglie di tabacco.
A lungo andare però le fatiche eccessive e le intemperie dovevano a poco a poco esaurirli.
Gli spagnuoli, inquieti per la presenza di quei cacciatori tutti stranieri, per un po’ di tempo li lasciarono cacciare, ma quando li videro fondare degli stabilimenti nella penisola di Samana al porto di Margot, nella Savana bruciata, verso i Goniaives, nell’imbarcadero di Mirfolais ed in fondo all’isola Avaches, presero il partito di cacciarli dalla grande isola, dichiarando a quei disgraziati una vera guerra di esterminio.
La guerra scoppiò ferocissima.
Gli spagnuoli si erano facilmente lusingati di fare una vera strage di quei miserabili, i quali, dopo tutto, non avevano mai recata a loro alcuna offesa.
Li sorprendevano spesso quando si trovavano in piccolo numero nelle loro corse, oppure di notte nelle loro abitazioni e, quanti ne prendevano, altrettanti ne trucidavano o li tenevano come schiavi, quasi fossero negri od indiani, facendoli lavorare duramente nelle piantagioni a colpi di sferza.
Certamente i bucanieri in tal guisa sarebbero stati a poco a poco distrutti, dalle tante cinquantine lanciate attraverso i boschi, se con miglior consiglio i cacciatori non si fossero finalmente decisi a raccogliersi in corpo, per difendersi.
Il bisogno di caccia portava che di giorno si sbandassero, ma alla sera si univano tutti in un luogo stabilito e se qualcuno mancava, argomentando che fosse stato ucciso, sospendevano le loro scorrerie fino a che o l’avessero trovato o vendicato.
E cominciò allora una lotta a tutta oltranza, I bucanieri fino allora si erano lasciati trucidare; da quel momento cominciarono a prendersi cosí spaventose rivincite, che tutta l’isola fu inondata di sangue e molti luoghi ricordano anche oggidí coi loro nomi le stragi avvenute.
Temendo però i bucanieri di non poter tenere testa alle innumerevoli cinquantine spagnuole, si decisero di trasportare, dopo una lunga lotta, i loro stabilimenti sulle isolette che circondano San Domingo.
Non andavano piú ormai alla caccia che in grosse partite, combattendo fieramente quando incontravano il nemico.
Alcuni stabilimenti salirono in fama, come quello di Bayaba, il quale aveva un porto vastissimo molto frequentato