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suo cappellaccio scolorito e bucato almeno in dieci punti; poi alimentò il fuoco, mentre il padrone preparava la lingua e la infilava nello spiedo.

      – Non invidio di certo la vita di quel povero garzone – disse il guascone, indicando l’arruolato. – E forse anche lui appartenne un giorno a qualche buona famiglia.

      – Quanto dura il loro arruolamento? – chiese il conte.

      – Tre anni, ordinariamente – disse Mendoza. – Dopo passano a loro volta bucanieri; ma sono tre anni di tribolazioni, poiché vengono trattati come schiavi, e non sono loro risparmiate né percosse, né sofferenze d’ogni specie. I bucanieri, abituati a vivere sempre in mezzo al sangue, diventano ben presto brutali, e per loro, uccidere un toro o un uomo è la stessa cosa. Hanno una sola qualità buona: sono leali e ospitalissimi.

      – Sicché quando l’arruolato sarà diventato bucaniere, non tratterà meglio il garzone che prenderà al suo servizio.

      – È cosí, capitano – rispose Mendoza. – Si direbbe anzi che vogliano vendicarsi a loro volta delle busse prese e dei patimenti subiti durante la loro schiavitú.

      Mentre chiacchieravano, Buttafuoco e il suo servo si facevano in quattro per allestire il pranzo, molto abbondante, è vero, ma anche molto modesto, poiché non consisteva che in un pezzo di maiale freddo, nella lingua del bufalo malamente arrostita e in un cavolo palmista che, bene o male, surrogava il pane che mancava assolutamente. Quei poveri cacciatori soltanto qualche rarissima volta potevano ottenere un po’ di grano, e allora era una vera festa per loro. L’arrosto fu presto pronto e fu servito dall’arruolato su una foglia di banano, insieme con alcune enormi ossa già spezzate per poterne succhiare piú comodamente il midollo crudo e ancora tiepido.

      – Mi rincresce, signor conte, di non potervi offrire di piú – disse Buttafuoco, il quale cercava di mostrarsi amabile. – Se possedessi ancora il mio castelluccio in Normandia, avrei fatto ben altra accoglienza al nipote del grande Corsaro Nero… Bah! – aggiunse poi, mentre la sua fronte si aggrottava ed una profonda emozione si dipingeva sul suo volto abbronzato – non vale la pena di risvegliare dei lontani ricordi. Il passato è morto per me, dopo che ho varcato la linea… Mangiamo, signori!

      Tagliò la lingua e l’arrosto di maiale, servendosi d’un enorme coltellaccio; spaccò in vari pezzi il cavolo palmista con degli scatti d’ira che tradivano una profonda agitazione, poi con un gesto fece segno ai convitati di servirsi.

      Mangiarono in silenzio. Il conte di quando in quando fissava il bucaniere e questi, quasi temesse che egli indovinasse la causa della sua profonda emozione, si affrettava ad abbassare lo sguardo o a volgere altrove il viso, con la scusa di dare al suo arruolato qualche ordine.

      Quando il pranzo fu terminato, Buttafuoco offrí ai suoi ospiti dei grossissimi sigari da lui stesso fatti con tabacco probabilmente rubato nelle piantagioni spagnuole; poi disse a Cortal, che aveva mangiato fuori della capanna accanto al fuoco:

      – La fiasca d’onore: vi è un conte fra noi, amico.

      L’arruolato frugò sotto un banano e ne trasse un’enorme zucca, parecchi bicchieri di corno di bufalo e portò l’una e gli altri nella catapecchia.

      – Signor conte, – disse il bucaniere con una certa amarezza – io non posso offrirvi né dello champagne, né del Borgogna, né del Medoc, perché non siamo in Francia. Qui non abbiamo che meschina aguardiente o del megeol, perché l’isola non ci dà niente di meglio. È la mia provvista che talvolta cerco a prezzo della mia vita che se ne va… quella provvista che certe notti mi è necessaria per dimenticare il passato, per non piangere… Signor conte, accettate.

      – Voi siete commosso, Buttafuoco! – gli disse il signor di Ventimiglia.

      – Si può esser forti, signor conte, – rispose il bucaniere – si può aver varcata la linea equatoriale; si può aver giurato di aver dimenticato il proprio paese… la mia Normandia… il mio castello… una sorella amata e che per me è ormai morta per sempre… il padre gentiluomo che riposa laggiú accanto a mia madre sotto le zolle dell’abbazia… Morte dell’inferno! Bevete, signor conte… berrò anch’io!

      Afferrò rabbiosamente la tazza di corno e la vuotò d’un fiato, gridando poi:

      – Ancora, Cortal, ancora! Bisogna che affoghi i ricordi lontani! Ah, la triste sorte che mi ha colpito!

      Il viso del fiero bucaniere si era spaventosamente alterato.

      Non piangevano i suoi occhi, eppure s’indovinava che faceva degli sforzi supremi per trattenere le lacrime, vergognoso forse di tradire il segreto delle sue pene.

      – Bevete, signor conte, – riprese dopo qualche istante, vuotando un’altra tazza. – Non avrei mai creduto di dover ospitare sotto questa miserabile capanna un gentiluomo della lontana Europa. L’avevo sperato un giorno, era una follia certamente… un uomo che fosse venuto qui a trovare me per caso o per combinazione.

      – Continuate, Buttafuoco, – disse il conte – siete fra amici.

      Il bucaniere vuotò il terzo bicchiere di aguardiente, poi, facendo un gesto di ira terribile, riprese con voce strozzata:

      – Parigi maledetta! Sirena infame che mi hai stretto fra le tue spire! Meglio sarebbe stato che io non ti avessi mai veduta! Le tue mille e mille seduzioni hanno fatto di me un miserabile bucaniere, un macellaio delle foreste di San Domingo!… Maledetto giuoco! Sei stato la mia rovina!

      – Ma chi siete voi? – chiese il conte, profondamente commosso dall’intenso dolore che traspariva sul viso del bucaniere.

      – Lo vedete, – rispose Buttafuoco, ridendo nervosamente – un cacciatore di buoi… un miserabile avventuriero. Da quando ho passata la linea, io non ho piú patria, non ho piú famiglia, non ho piú nobiltà, piú nulla fuorché il mio archibugio che tutti i giorni uccide per non uccidere il mio cuore.

      Per la quarta volta vuotò la tazza che l’arruolato gli aveva riempita.

      – Gli anni sono passati, – riprese il disgraziato, serrando la fronte fra le mani, come se cercasse di comprimere i pensieri che lo tormentavano

      – Eppure vedo ancora il mio castello, là, sulle rive dello stagno, ergersi superbo con i suoi pinnacoli e le sue torri; vedo ancora in certe notti passeggiare sulle terrazze quella dolce fanciulla che era mia sorella e per la quale avrei dato la vita pur di vederla felice… Un barone della Bretagna la fece sua sposa… Sia felice, ed ignori per sempre la sorte del suo disgraziato fratello… Cortal, dammi ancora da bere. Ho sete, una terribile sete!

      Rimase alcuni istanti silenzioso, fissando il bicchiere colmo con gli occhi dilatati, cupo, fremente, poi disse:

      – Eh, la vita talvolta è cosí, se si è preda d’un genio maligno. Eppure quanto è stata terribile la discesa! Meglio sarebbe stato che sui vent’anni un colpo di spada m’avesse finito fra i pometi della Normandia! Cosí non avrei veduta mai Parigi, almeno non sarei disceso, di gradino in gradino, fino nel fango d’una prigione… non avrei macchiato il blasone dei miei avi… non avrei dimenticata la mia Francia… non avrei cambiato nome… non sarei diventato un avventuriero… non sarei fuggito come un ladro… e non avrei fatto piangere mia sorella, povera creatura!

      – Buttafuoco! – gridò il conte.

      Il bucaniere si era alzato di scatto, con gli occhi dilatati, il viso bagnato di sudore. Staccò da un palo della capanna il suo archibugio, poi uscí rapidamente, scomparendo fra gli alberi.

      – È sempre cosí il tuo padrone? – chiese il conte all’arruolato che stava fermo sulla soglia della capanna.

      – Io non l’ho mai veduto sorridere – rispose Cortal. – È sempre triste

      – E non sarà il solo – disse il guascone. – Quanti uomini, che un giorno furono ricchi e stimati, si trovano fra questi bucanieri!

      – E quanti gentiluomini ha rovesciato l’Europa in America! – rispose il corsaro.

      – È vero, signor conte – rispose il guascone con un sospiro. Io peraltro ho dimenticato presto Pau e il mio castelluccio

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