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Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta
Читать онлайн.Название Mater dolorosa
Год выпуска 0
isbn
Автор произведения Gerolamo Rovetta
Жанр Зарубежная классика
Издательство Public Domain
La bella fuggitiva, invece, non dormì un minuto del lunghissimo viaggio. Immobile, con la testa piegata e con l’occhio fisso alla finestrella del carrozzone, sembrava assorta. Ma l’oggetto ch’ella guardava con tanto amore doveva essere raccolto nella sua mente, perchè da troppo tempo più non curava di levar via col fazzoletto l’umidità densa che appannava i cristalli.
Un’immagine, cara al suo cuore, la seguiva sempre in quella sua fuga: ella correva via a precipizio e traballava per l’urto e le scosse rapide del convoglio, pure non riusciva a fuggire del tutto. Ma quantunque vinta, era calma e sorridente: la battaglia era finita. Dopo lunghi giorni, dopo notti d’insonnia e di lacrime, trovava finalmente un’ora di pace.
Piegata la fronte, rassegnata, non aveva fatto ciò che il dovere le aveva imposto? La passione, che serpeggiava irritante nelle sue vene, era riuscita a soffocarla; l’uomo ch’ella amava tanto da sacrificare tutto per lui, l’aveva veduta fredda e indifferente; fuggiva il pericolo, e nulla nascondeva al marito… non era una santa, infine, era una povera donna: che cosa avrebbe potuto fare di più?… Doveva forse squarciarsi il petto colle stesse sue mani, per istrapparne via il cuore? No, Dio ha imposto alla creatura di vivere, oramai la vita per lei era il suo amore. Come, perchè ostinarsi in una lotta ineguale della volontà contro il pensiero? Quell’affetto non le consigliò mai una colpa, non le lasciò il retaggio d’un solo rimorso. Maria usciva intatta dall’incendio come l’amianto, non soffriva l’umiliazione, l’abbattimento di quelli che sono caduti, ma nella sua coscienza grandeggiava l’orgoglio supremo della vittoria; dunque? Dunque perchè combattere ancora, combattere sempre, dilaniarsi, per quello che era impossibile, quando, sola oramai, lontana dal pericolo, sicura di sè, poteva abbandonarsi, riposare serena, nelle care fantasie della mente? Ah! quell’ora di pace troppo a caro prezzo l’aveva guadagnata, e vi si abbandonò in ispirito e corpo. Allora chiuse gli occhi, incrociò le mani sulle ginocchia e, quasi un mistico velo l’avesse separata dal mondo, si raccolse tutta in sè stessa.
I sensi erano vinti e, ritornati all’assalto, sarebbero stati vinti ancora e sempre. L’uomo che si era impadronito di lei, adesso non faceva che prestar le sembianze alla cara immagine del suo sogno; l’amore non era sangue e carne, era pensiero: poetica, virtuosa, casta Maria lo avea idealizzato.
Sarà triste molto la vita, senza ricambio di affetti, sempre lontana, sempre là, sola; ma vi troverà ancora gioie profonde, vere, insperate. Dimenticare non avrebbe potuto(), nè voluto allora, nè mai; però quel nuovo battesimo l’ebbe rassegnata e volonterosa.
Così solamente l’amore non era colpa, era virtù; non era debolezza, ma forza sublime, divinità segreta purissima: non più tormento e pericolo, ma consolazione e conforto.
XI
Santo Fiore è un villaggio del basso Padovano: una contrada lunga e larga, dalla quale si diramano dieci o dodici viuzze più o meno deserte.
Colline non se ne vedono affatto, e le montagne si perdono lontane, sull’orizzonte.
Santo Fiore era il feudo dei conti di questo nome, e oggi ancora in barba allo statuto del regno, l’autorità dell’antica dinastia in quel villaggio ha salde le radici. Invece di reggere il piccolo popolo col cappellone dei carabinieri, i conti di Santo Fiore adoperavano due altri spedienti: il pane e il lavoro.
Quando il conte Giovanni, padre di Maria, venne a morire(), suo fratello Eriprando lasciò Borghignano e fece la sua abituale dimora nel maniero, come egli lo chiamava ridendo, della pupilla, continuandovi da gran signore la filantropia che da secoli facea benedetta la nobile famiglia. Ma troppo presto per quei terrazzani Maria si fe’ sposa, il conte ritornò per sempre in città, e allora Santo Fiore rimase sotto la giurisdizione di un segretario, il quale, naturalmente, non poteva largheggiare in opere buone, come avevano usato i padroni.
Da tutto ciò si capisce con quanta contentezza vi fu accolta Maria al suo ritorno. Fu accolta con una vera festa di popolo: una di quelle feste spontanee, sincere, espansive, dove non sono i questurini travestiti che dànno l’intonazione agli evviva, dove il telegrafo non raddoppia le chiamate al balcone e dove, finalmente, l’ispettore di pubblica sicurezza non trema che il consigliere delegato venga a sapere, dai rimproveri del prefetto, che al signor ministro parve quell’entusiasmo inferiore al prescritto.
Maria era stata ricevuta alla stazione dal parroco, dal sindaco, che era suo fittaiolo, dai ricchi e dai poveri del paese; e mentre saliva sul carrozzone del nonno, tutti volevano salutarla, facevano meraviglie e moine a Lalla che sapeva darsi una certa arietta, e cercavano di stringere la mano a miss Dill, che non avevano mai veduta, e che rispondeva con smorfie, trovando, nel suo sentire d’inglese, quel baccano di pessimo gusto.
Il cocchiere dall’antica livrea non era l’impettito auriga superbo, arcigno, pretenzioso, che anticipa dalla cassetta le borie di chi sta in carrozza; ma invece era un vecchietto gaio, lindo, arzillo, il quale aveva servito alle nozze del conte Giovanni e veduta nascere Maria. Anche lui, rimasto sempre a Santo Fiore, contento come una pasqua dell’avvenimento insperato, faceva andare i cavalli con un trotto limitato, ammiccando alla buona i conoscenti, che vedeva alle finestre, come per dir loro: – È qui, è venuta, è tornata finalmente, la padroncina!… – Maria aveva avuto un bel crescere, maritarsi e far figliuoli; il buon uomo la chiamava ancora, come l’aveva chiamata sempre, – la padroncina. – E ciò per la consuetudine di tanti anni, ma più forse, per un delicato riguardo che quel cuore onesto conservava alla defunta contessa, la madre di Maria, che nella rozza devozione del servo, anche morta rimaneva sempre la buona padrona che governava dall’alto su quella casa.
Luigia e Lorenzo venivano dietro in un’altra vettura, tutti e due storpiando un toscano sui generis col castaldo, che li guardava sbalordito e in soggezione.
Sui muri erano stati affissi in carte rosse, verdi, gialle, come gli avvisi dei teatri, sonetti e madrigali, composti dal figlio del segretario comunale, un ragazzotto pieno di genio, che aveva studiato nel ginnasio della vicina città; e alla sera poi la musica dei dilettanti suonò sotto il portico della villa il Miserere del Trovatore, un coro del Nabucco e la Stella confidente.
Ma poi, dopo quel baccano d’un giorno, non ci furono altri divertimenti a Santo Fiore; nè gli abitanti del piccolo villaggio potevano offrire a Maria un elemento ai colloqui piacevoli e alle possibili famigliarità. Il sindaco, il medico, il pretore, lo speziale erano tutte brave persone, le loro donne svelte e chiacchierone, ma non possedevano certo le qualità volute dall’indole fine e dai gusti aristocratici della duchessa d’Eleda.
La muta del filugello, la caccia, la veste o il ganzo di una comare, le novene e le recite dei Due Sergenti prestavano l’argomento a tutti i loro pettegolezzi, dal primo all’ultimo giorno dell’anno.
Però la distanza che separava il villaggio dal Palazzo dei Signori, era enorme, quantunque la duchessa facesse del suo meglio per accorciarla. Solo don Gregorio, il vecchio parroco, il maestro d’una volta e il confessore di Maria, era tal uomo che alla bontà dell’animo accoppiando una coltura non comune, riusciva l’amico diletto, la compagnia cara e cercata dalla giovane solitaria.
Ma don Gregorio era molto innanzi cogli anni; i mille acciacchi della vecchiaia lo tenevano prigioniero rassegnato tra i quattro muri della sua cameretta, ed era miracolo se qualche volta, quando la giornata era tepida, poteva trascinarsi fino al Palazzo. Per questo appunto la curia gli aveva concesso un coadiutore in don Vincenzo, pretucolo grasso, bracato e piaggiatore, il quale menava la vita facendo della mensa un altare, e dell’altare una mensa. Costui divenne lo spavento di Maria, con quel tabacco e con quel sudiciume!… Invece miss Dill, quantunque da buona inglese la propriety l’avesse sempre in bocca, sentiva per lui una grande predilezione. Ma il prete aveva il merito di darle sempre ragione; poi la inchinava, quanto gli permetteva la pinguedine, con ogni sorta di salamelecchi: e non appena vedeva entrare in chiesa quella figura bizantina, le mandava subito lo scaccino con una sedia imbottita ed uno sgabello per posarvi su i piedi; due piedi