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non riguarda me. Si tratta di te.”

      “Me?”

      “Ho capito che la vita senza Joey fa schifo per te e che stai facendo del tuo meglio perché gli hai promesso di farlo.” La voce di Gia diventò un sussurro e l’insolita gravità fece avvertire un brivido ad Adara. “Anch’io gli ho fatto delle promesse. È trascorso più di un anno, e invece di uscirne, ogni giorno sprofondi di più nell’indifferenza. Dar, tu sei la cosa più vicina a lui che ho e non posso - non voglio - veder svanire anche te.”

      Quel gelo s’intensificò, insinuandosi nelle ossa di Adara che non aveva l’energia per affrontare la simpatia indesiderata e le buone intenzioni. “Come mi comporto non sono affari di nessuno, se non miei.”

      “Vero.” Gia sembrava malinconica. “Andare avanti è una decisione che solo tu puoi prendere. Il fatto è che questa mattina mi sono imbattuta in una teoria interessante. All’inizio ero scettica, non voglio mentire, ma dopo un’indagine approfondita” - esitò - “sono convinta che meriti un’opportunità. Tutto quello che ti chiedo, è che tu gli dia una vera possibilità, non solo le parole di Gia.”

      Perfetto. Un movimento di Adara e il braccio si stava stancando. Mise giù il quaderno e ci piantò il sedere sopra. Se avesse ammesso di non essere andata affatto avanti, Gia non avrebbe mai smesso. Sarebbe stata tormentata da frivoli inviti sociali fino a vomitare. D’altronde, accettare umilmente avrebbe sollevato ogni sorta di sospetto. La sua reazione doveva essere una via di mezzo per renderla credibile.

      “Non ti fidi di me?” Avrebbero potuto utilizzare il tono ferito di Gia come sottofondo di una pubblicità di un animale maltrattato.

      “Neanche un po’.“ Adara si piegò e si sistemò i capelli dietro l’orecchio. “Ho bisogno di qualche dettaglio.” È un cane da terapia? O forse una sessione di consulenza in cui lei avrebbe fatto finta di avere tutto insieme abbastanza a lungo da placare tutti, qualsiasi cosa servisse per tenere Gia felice e fuori dal suo caso.

      “Una parola: Garret Ambrose. So che tecnicamente sono due parole, ma un solo nome.”

      Ambrose. Perché questo nome mi suona familiare? Ambrose. I campanelli d’allarme suonarono nella testa di Adara. Ambrose... lo stesso nome che aveva sentito dal preside Austin. La voce di Adara, facendo eco al calore che si stava accumulando nelle sue viscere. “Che cosa hai fatto, G.?”

      “Mi ha chiesto di te e mi ha convinta a rivelare qualche dettaglio.”

      “Allora è deciso. Sei morta prima della pasta.” I traditori non meritano il dessert.

      “Non l’avrei mai fatto se non fossi stata convinta che è un bravo ragazzo,” si affrettò Gia. “Come minimo, prendi un caffè con lui - o dimentica il caffè e saltagli addosso. Scommetto che potrebbe curare qualsiasi tristezza.”

      Mantenendo la voce gelidamente disinvolta, Adara si alzò. “Vado a correre. Punto.”

      Spense il telefono, rifiutando di sentire la risposta di Gia. Con il faldone tra le braccia, sfrecciò oltre gli armadietti e le fontanelle, avendo bisogno di stare all’aria aperta. Le mani le tremavano e il cuore le martellava le costole come se avesse già corso. Di tutte le cose con cui si aspettava che Gia la sbattesse, l’ultima era un appuntamento... con lui. La terapia dell’uomo poteva essere la droga di Gia, ma non la sua. Ma per favore. Come se un ragazzo potesse sostituire il legame perduto con il proprio fratello. Nessuno l’aveva mai capita come Joey e non importava quanto le mancasse suo fratello, la solitudine era preferibile all’affrontare di nuovo il dolore.

      Dopo aver spinto le porte della scuola, si fermò, inspirando un profondo respiro di aria gelida nei polmoni. Il freddo le colpì il naso e le guance. Sbatté un fiocco di neve dalle ciglia e sollevò lo sguardo verso un cielo carico di nuvole nere. Neve, prima di quanto il meteorologo avesse previsto. Con un po’ di fortuna, la roba bianca si sarebbe attaccata e sarebbe durata abbastanza a lungo da tenere a casa alcuni dei più cauti appassionati di carnevale.

      Per la prima volta in quella settimana, quasi sorrise.

      Capitolo quarto

      La bufera di neve divoratrice di energia, che Adara aveva sperato cancellasse la festa di Carnevale, lasciò solo un’inutile spolverata, niente che potesse rallentare la folla. Si unì alla folla dei bambini che si agitavano e ondeggiavano con le mani macchiate, gli occhi grandi e delle voci ancora più grandi e si mise in disparte, dove l’insegnante di quinta elementare e attuale supervisore della sicurezza, Olivia, stava discutendo con un genitore.

      “Non faccio io le regole, signor Vergara.” Le guance di Olivia vacillavano a ogni parola e sembrava pronta a pugnalare il signor Vergara con i ferri da maglia che teneva sempre a portata di mano. “Billy ha violato la regola dodici.”

      Il signor Vergara se ne andò come una furia portando con sé un Billy lamentoso e borbottando parole in spagnolo che violavano decisamente la politica linguistica della scuola.

      “Sei in ritardo di due minuti,” gridò Olivia al di sopra dei suoni circostanti, il ronzio di troppe persone stipate nello stesso posto. “Due minuti eterni e tormentosi.” Si tolse a fatica il giubbotto di sicurezza color verde fosforescente e spinse l’indumento tra le braccia di Adara. “I mostri sono tutti tuoi e non sto parlando dei bambini. Se devo dire ancora una volta al signor o alla signora ‘sono meglio di te’ che devono controllare il loro figlio perfetto, verrà fuori il mio ninja interiore, e nessuno lo vorrebbe.”

      Immaginare quella donna in carne e ossa facesse la ruota nel suo vestito di percalle e lanciasse i ferri come stelle nel sedere di alcuni padri amanti del football e delle loro mogli trofeo, m’ispirò un piccolo sorriso. “Ottima idea per la nostra prossima raccolta fondi.”

      Olivia le posò una mano pesante sulla spalla e si avvicinò, abbastanza da permettere ad Adara di contarle le rughe intorno agli occhi. “Tesoro, certe cose non le faccio gratis e la scuola non potrebbe permetterselo.” Olivia si raddrizzò e i suoi occhi si sgranarono, segno di pettegolezzi da spargere. “Dopo la scuola mi sono imbattuta nel tuo nuovo mentore musicale nell’ufficio di Austin.”

      Adara digrignò i suoi molari.

      “Se non fai figli con lui...”

      “Non succederà. Né con lui né con nessun altro.” Adara aggiunse un ringhio al suo tono e lasciò vagare liberamente il suo sguardo. “Mi piace stare da sola e questo non cambierà mai. Mai. Fine della discussione.” Adara non aveva bisogno di spintoni che si aggiungessero alle occhiate complici che già riceveva in sala relax. Cos’era questa storia che tutti cercavano di farla incontrare con il signor Musicalità?

      “Tanto per dire.” Olivia scrollò le spalle, chiaramente indifferente allo sguardo persistente di Adara da Mister T. “Buona fortuna per stasera. Ho un appuntamento con i miei ferri e un nuovo rocchetto di filato rosso per il maglione che ti sto facendo. Sono stanca di vederti vestita di nero.” Olivia si fece largo tra la folla dirigendosi verso la porta.

      “Mi piace il nero,” disse Adara alla schiena che si allontanava. “È il mio colore felice.”

      Olivia agitò le dita in segno di saluto.

      Adara prese in mano la festa di carnevale. Che incubo. Bambini senza accompagnatori correvano in tutte le direzioni, cinguettando e urlando con manciate di premi di plastica e palloncini. Era un miracolo che non ci fosse stato ancora nessuno spargimento di sangue. I trucchi trasformavano i volti in clown, tigri e fate dementi. La tintura temporanea per capelli aggiungeva arcobaleni fosforescenti sulle piccole teste. Alcuni dei genitori più rispettosi seguivano i loro figli o li tenevano per mano, mentre altri si erano raggruppati in piccoli gruppi, ignorando le regole e lasciando che la loro prole corresse indisturbata.

      I giochi interattivi circondavano la palestra e l’aria era soffocante a causa di una miscela di cibo spazzatura, compresi popcorn imburrati, hot dog e grasso. Era abbastanza da ostruire i suoi pori semplicemente respirando. In un angolo, la sempre popolare casa gonfiabile tremava e

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