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       Cristina Belgioioso

      La vita intima e la vita nomade in Oriente

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066069100

       PREFAZIONE

       SCENE E RICORDI DI VIAGGIO IN ASIA

       I. GLI HAREM, I PATRIARCHI E I DERVISCI, LE ARMENE DI CESAREA.

       II. LE MONTAGNE DEL GIAURRO L'HAREM DI MUSTUK BEY — LE DONNE TURCHE

       III. IL VIAGGIATORE EUROPEO NELL'ORIENTE ARABO

       IV. GLI EUROPEI A GERUSALEMME LA TURCHIA ED IL CORANO

       Indice

       Chiuso nella sua maschera impassibile e sibillina, l'emiro Feisal risaltava come il più esotico nella folla multicolore dei delegati convenuti da ogni parte del mondo alla Conferenza parigina per la pace. Lo spettatore riflessivo non poteva trattenersi dal considerare con inquietudine quella figura enigmatica che simboleggiava, non solo le tradizioni dell'Oriente, ma le speranze rinate del mondo arabo. Gli auspici non sono stati fallaci e le interrogazioni che venivano alle labbra affannose dei migliori conoscitori del Levante non hanno avuto ancora risposta, o piuttosto si sono moltiplicate e fatte più incalzanti. È così poco noto l'animo dei Mussulmani, che pur vivono sulle sponde del nostro stesso mare! Pellegrini, commercianti, navigatori che dall'Europa si sono recati durante secoli nei luoghi abitati o dominati dagli arabi sono rimasti quasi sempre fuor della soglia della casa retta dalle leggi del Corano. Ma l'uomo che ci è ignoto nella sua vita intima ci rimarrà straniero pur nel moltiplicarsi delle nostre relazioni esteriori con lui. Se gli italiani si propongono giustamente in quest'ora torbida di ritornare nel Levante in atteggiamento amichevole, offrendo a quelle popolazioni il mezzo di collaborare con loro nelle arti della pace, occorre che si sforzino di conoscere i sentimenti e le abitudini mentali, il tenore di vita di questi ambiti cooperatori. Frughino dunque tra i lor vecchi libri per cavar dalla polvere le relazioni dei loro avi veneziani e genovesi che pur seppero farsi comprendere dagli infedeli dell'altra sponda. Oggi intanto possono prendere in mano queste semplici e schiette narrazioni di un viaggio, anzi di un soggiorno che fece nell'Asia Minore e nella Siria una gentildonna milanese, fuggita laggiù nel 1849 all'indomani della caduta della Repubblica romana.

       Nel Levante la principessa Cristina di Belgiojoso recava un viso non meno pallido ed uno sguardo non meno fermo di quelli che turbano l'osservatore occidentale nel considerare lo sceriffo arabo. Nella Parigi fastosa ed intelligente del primo romanticismo, la bella milanese passò bene spesso come una sfinge, irritante nel suo mistero. Un passato storico gravava sulle sue esili spalle, che sapevano reggerlo colla maggiore saldezza. Nata a Milano il 28 giugno 1808 dal marchese Gerolamo Trivulzio e dalla marchesa Vittoria Gherardini, respirò fin dall'infanzia, nonostante le scosse recenti della rivoluzione e dell'invasione francese, quell'aura di grandezza e di opulenza che dominava in parecchie case patrizie della Lombardia. Il rapidissimo mutamento sopravvenuto nelle condizioni politiche ed economiche rende ormai difficile alle presenti generazioni di valutare l'importanza che poteva avere, nell'educazione della discendente di una di quelle grandi casate, la consapevolezza delle gloriose tradizioni famigliari. Conviene nondimeno di tentare di darne un'idea al lettore perchè quest'elemento è così essenziale nella formazione ed in tutta la vita della principessa di Belgiojoso che ogni ritratto non può prescinderne a rischio di diventare una caricatura. Un Trivulzio, un Litta, un Belgiojoso, uno insomma dei rappresentanti di quella decina di case magnatizie lombarde che sempre più si straniavano dalla vita stentata della crescente plebe nobiliare, vivacchiante negli uffici o colle scarse rendite, si riteneva praticamente indipendente dal potere centrale di Madrid o di Vienna, e ne faceva pochissimo conto. Quando l'amministrazione della casa avesse sistemato col fisco le vertenze necessarie a stabilire il tributo imposto dalla Corona come riscatto da ogni ulteriore limitazione, il marchese Trivulzio, non meno de' suoi parenti del ramo primogenito, che avevano avuto titolo principesco, non si sentiva ostacolato, in pieno settecento, dall'autorità dello Stato, in veruna delle sue iniziative o manifestazioni. Se in gioventù avesse senza alcun obbligo provato il desiderio di qualche avventura guerresca, gli eserciti imperiali gli avrebbero offerto facile occasione di segnalare l'istintivo coraggio e di rientrare carico di onori da una breve campagna. Parimenti un alto ufficio in Corte od una missione diplomatica gli sarebbero stati assicurati solo che ne avesse mostrato la menoma brama. Per solito la sua attività politica si svolgeva nell'ambito più ristretto ma più libero delle cariche civiche, garantite da una secolare autonomia municipale simboleggiata perfino dalla pratica della Cancelleria sovrana che si indirizzava al Senato di Milano chiamandolo «Re Potentissimo». Nel suo seggio fra i sessanta patrizi del Consiglio Generale di Milano, nel palazzo vastissimo e ricco di libri e di quadri, nella residenza rurale opulentissima, nel viaggiare, nel fabbricare, nell'abbattere boschi o nello scavare canali, un gran signore siffatto poteva agire assolutamente come gli piacesse, senza alcun sentore di tutti quei vincoli che in poco più di cento anni l'amministrazione moderna ha moltiplicato intorno alla libera espansione dell'attività o del capriccio individuale. Quando il Verri, gentiluomo riformatore, si recò a Parigi nella seconda metà del settecento ed ammirò il re Luigi XVº nel bel mezzo della sua Corte, sintetizzò nello scrivere a casa le sue impressioni affermando che la marchesa Litta nella sua villa di Lainate viveva con maggior agio che il re di Francia a Versailles. Si può ben comprendere come non fossero stati sufficienti quei brevi giorni della tumultuosa repubblica Cisalpina e nemmeno l'opera eguagliatrice dell'amministrazione francese, così riguardosa per maggiorenti del suo partito quali furono agevolmente i Trivulzio, ad illanguidire un senso così spontaneo d'indipendenza come quello che doveva venire ad un rampollo di simili schiatte dall'esercizio incontrastato di tanto potere. Valsero bensì i tempi nuovi, e sovratutto la partecipazione calorosa del marchese Visconti d'Aragona, patrigno di donna Cristina, ai moti del 1821, per indirizzare le resistenze dell'orgoglio patrizio alla nuova monarchia accentratrice stabilitasi a Milano col ritorno degli austriaci nel 1814 verso una schietta collaborazione di tutte le classi alte e colte del paese per costruire sulle rovine di quel governo straniero un regime più illuminato e prettamente nazionale. Così fu educata Cristina Trivulzio, anzitutto dagli esempi dei famigliari, ma anche dalle lezioni accurate di due filologi, il Prefetto della Biblioteca Braidense Robustiano Gironi e lo storico della letteratura italiana Francesco Ambrosoli. A questi si aggiunse un giovane di fervidissimo amor patrio che lasciava allora il seminario di Pavia e la scuola austera del vescovo Tosi, per fare le prime prove nell'insegnamento, palestra alla nobile attività politica alla quale era chiamato, e che, sebbene non avesse mai preso gli ordini sacri, era tuttora detto l'abate Achille Mauri. Le nozze, che si offersero a donna Cristina Trivulzio e che furono celebrate l'11 settembre del 1824, la condussero in una casa quasi altrettanto illustre e certo non meno magnatizia, ma più gaja ed aperta.

       Il principe di Belgiojoso, che non aveva ancora venticinque anni, bel giovane, dotato di una voce da far invidia a cento cantanti, viveva fra gli artisti, senza resistere alle seduzioni femminili che si addensavano sul suo passaggio dacchè la morte del padre lo aveva posto a capo di una gran casa ed al possesso di cospicue rendite. Pur facendo la parte dell'esagerazione nelle memorie del suo amico e compagno di eleganti capestrerie, conte d'Alton-Shée,

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