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i grandi cancelli di ferro saltò gettandovisi contro e mordendoli inutilmente con i denti.

      Godfrey guardò con orrore mentre i soldati dell’Impero che stavano di guardia posavano i loro sguardi sul cane e lo indicavano. Uno di essi sguainò la spada e si avvicinò a Dray con la chiara intenzione di ucciderlo.

      Godfrey non capì cosa gli stesse accadendo, ma qualcosa si mosse in lui. Era troppo, troppa ingiustizia da sopportare. Se non poteva salvare Dario, almeno doveva salvare il suo adorato cane.

      Godfrey sentì se stesso gridare, sentì che si metteva a correre come fuori di sé. Con una sensazione surreale sentì che sguainava la sua spada corta e correva in avanti verso la guardia ignara. Mentre questa si voltava la pugnalò al cuore.

      Il grande e grosso soldato dell’Impero guardò Godfrey incredulo, gli occhi sgranati, immobile. Poi cadde a terra morto.

      Godfrey udì un grido e vide le altre due guardie dell’Impero piombargli addosso. Sollevarono minacciosamente le loro armi e lui capì che non aveva possibilità di affrontarle. Sarebbe morto lì, davanti a quei cancelli, ma almeno sarebbe morto in un gesto di nobiltà.

      Un ringhio squarciò l’aria e Godfrey vide con la coda dell’occhio che Dray si voltava e balzava in avanti saltando addosso alla guardia che incombeva su Godfrey. Gli affondò le zanne nella gola e lo bloccò a terra strattonandolo fino a che l’uomo smise di muoversi.

      Nello stesso istante Merek ed Ario accorsero e usarono le loro spade corte per pugnalare l’altra guardia che si trovava dietro a Godfrey, uccidendola prima che potesse fargli del male.

      Rimasero tutti lì in silenzio. Godfrey guardò quella carneficina, scioccato per ciò che aveva appena fatto, scioccato di possedere quel genere di coraggio. Dray gli corse vicino e gli leccò il dorso della mano.

      “Non pensavo potessi fare tanto,” disse Merek con ammirazione.

      Godfrey rimase impassibile, sconvolto.

      “Non sono neanche sicuro di cosa ho effettivamente fatto,” disse sopraffatto dalla confusione degli eventi. Non aveva inteso agire, l’aveva fatto e basta. Questo lo rendeva comunque coraggioso?

      Akorth e Fulton guardarono da ogni parte, terrorizzati, cercando segni di soldati dell’Impero.

      “Dobbiamo andarcene da qui!” gridò Akorth. “Ora!”

      Godfrey sentì delle mani su di lui e si sentì trascinare via. Si voltò e corse insieme agli altri, Dray al loro fianco. Si allontanarono tutti dai cancelli correndo di nuovo verso Volusia, verso Dio solo sapeva cosa ci fosse in serbo per loro.

      CAPITOLO SETTE

      Dario sedeva appoggiato alle sbarre di ferro, i polsi legati alle caviglie con una lunga catena tra essi e il corpo ricoperto di ferite ed abrasioni. Si sentiva pesare tonnellate. Mentre procedevano con la carrozza che rimbalzava sulla strada impervia, guardava verso l’esterno vedendo il cielo del deserto tra le sbarre e sentendosi perduto. La sua carrozza passò attraverso un paesaggio infinito e brullo, nient’altro che desolazione a perdita d’occhio. Era come se il mondo fosse finito.

      La sua carrozza era ombreggiata ma dei fasci di luce passavano tra le sbarre e lui sentiva l’opprimente calore del deserto avvolgerlo a ondate, facendolo sudare anche all’ombra e peggiorando così la sua situazione di sconforto.

      Ma a Dario non importava. Tutto il corpo gli bruciava e gli doleva dalla testa ai piedi, ricoperto di ematomi, gli arti che facevano fatica a muoversi, consumati dagli infiniti giorni di combattimenti nell’arena. Incapace di dormire, chiuse gli occhi e cercò di scacciare i ricordi, ma ogni volta che ci provava vedeva i suoi amici morirgli accanto – Desmond, Raj, Luzi e Kraz – tutti in modo terribile. Tutti loro morti perché lui potesse sopravvivere.

      Era il vincitore, aveva ottenuto l’impossibile, eppure questo significava pochissimo adesso per lui. Sapeva che la morte stava per arrivare: la sua ricompensa, dopotutto, era di venire spedito nella capitale dell’Impero per diventare uno spettacolo in un’arena più grande, contro avversari ben peggiori. La ricompensa per tutto ciò, per i suoi atti di valore, sarebbe stata la morte.

      Dario avrebbe preferito morire lì piuttosto di dover rivivere tutto di nuovo. Ma non poteva controllare neppure questo: era incatenato lì, inerme. Quanto ancora sarebbe durata quella sua tortura? Avrebbe dovuto assistere alla morte di ogni cosa che amava al mondo prima di morire lui stesso?

      Dario chiuse ancora gli occhi, cercando disperatamente di eliminare i ricordi. Così facendo, gli venne alla mente un ricordo della sua prima infanzia. Stava giocando davanti alla capanna del nonno con un bastone. Stava colpendo ripetutamente un albero fino a che suo nonno gli strappò di mano il bastone.

      “Non giocare con i bastoni,” lo rimproverò. “Vuoi attirare l’attenzione dell’Impero? Vuoi che pensino che siamo dei guerrieri?”

      Il nonno ruppe il bastone sul proprio ginocchio e Dario si incollerì. Quello era più che un bastone: quello era il suo bastone dei poteri, l’unica arma che aveva. Quel bastone significava ogni cosa per lui.

      Sì, voglio che pensino che sono un guerriero. Non voglio che mi si conosca per nient’altro che questo, aveva pensato.

      Ma mentre suo nonno si girava e si allontanava velocemente non aveva avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.

      Dario aveva raccolto il bastone rotto e aveva tenuto i pezzi in mano con le lacrime che gli scendevano sulle guance. Un giorno, aveva giurato, si sarebbe vendicato su tutti loro: la sua vita, il suo villaggio, la loro situazione, l’Impero, qualsiasi cosa e ogni cosa che non era in grado di controllare.

      Li avrebbe distrutti tutti. E lo avrebbero conosciuto per essere nient’altro che un guerriero.

      *

      Dario non sapeva quanto tempo fosse passato quando si svegliò, ma notò immediatamente che il brillante sole della mattina si era trasformato in un pomeridiano sole arancione che volgeva al tramonto. Anche l’aria era molto più fresca e le sue ferite si erano irrigidite rendendogli più difficile muoversi o addirittura spostarsi in quello scomodo carro. I cavalli lo facevano sobbalzare ininterrottamente sul suolo roccioso del deserto e la sensazione del ferro che gli sbatteva contro la testa lo faceva sentire come se gli stessero frantumando il cranio. Si strofinò gli occhi togliendosi lo sporco dalle ciglia e si chiese quanto ancora distasse la capitale. Gli sembrava di aver ormai viaggiato fino all’altra parte del mondo.

      Sbatté le palpebre diverse volte e guardò fuori, aspettandosi come sempre di vedere un orizzonte vuoto, un deserto di desolazione. Ma questa volta fu sorpreso di vedere qualcosa di diverso. Si mise a sedere più eretto per la prima volta.

      Il carro iniziò a rallentare, il rombo dei cavalli si acquietò un poco e le strade si fecero più lisce. Mentre scrutava il nuovo paesaggio Dario vide un panorama che mai avrebbe dimenticato: lì, ergendosi dal deserto come una sorta di civiltà perduta, si trovavano delle massicce mura cittadine, cancelli di oro luccicante, mura e parapetti gremiti di soldati. Dario capì all’istante che erano arrivati: era la capitale.

      Il rumore della strada mutò, diventando un suono di legno vuoto e Dario abbassò lo sguardo vedendo che la carrozza veniva condotta al di sopra di un ponte levatoio. Passarono oltre centinaia di soldati allineati lungo il ponte, tutti sull’attenti al loro passaggio.

      Un forte cigolio riempì l’aria e Dario guardò davanti a sé vedendo le porte dorate, incredibilmente alte, che si spalancavano come ad accoglierlo. Vide un luccichio al di là: era la città più magnifica che mai avesse visto e capì, senza ombra di dubbio, che quello era un posto dal quale non sarebbe potuto scappare. Come a confermare i suoi pensieri udì un lontano rombo, un rumore che riconobbe all’istante: era il fragore dell’arena, una nuova arena, un posto di uomini che chiedevano sangue, il posto che sarebbe di sicuro stato l’ultimo che avrebbe visitato. Non ne aveva paura: pregava solo Dio di morire sui proprio piedi, con la spada in mano, in un ultimo grandioso atto di valore.

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