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gridando, in mare.

      Erec vide che anche sulle altre sue navi i suoi uomini stavano uccidendo guardie a destra e a sinistra.

      “Tagliate le ancore!” ordinò Erec.

      Su tutte le navi i suoi uomini tagliarono le funi che li tenevano fermi sul posto e presto Erec percepì la familiare sensazione della nave che dondolava sotto i suoi piedi. Finalmente erano liberi.

      Suonarono dei corni, si sentirono delle grida e le torce vennero accese lungo le navi mentre la grandiose flotta dell’Impero si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Erec si voltò e guardò verso il muro di navi che bloccava loro il passaggio verso il mare aperto. Capì che davanti a sé aveva la battaglia della sua vita.

      Ma non gli interessava. I suoi uomini erano vivi. Erano liberi. Ora avevano un’occasione.

      E ora, questa volta, sarebbero caduti combattendo.

      CAPITOLO QUATTRO

      Dario si sentì il viso spruzzato dal sangue e voltandosi vide una decina dei suoi uomini massacrati da un soldato dell’Impero a cavallo di un immenso destriero nero. Il soldato faceva roteare una spada più grande che mai e con un solo colpo netto aveva tagliato addirittura dodici teste.

      Dario udì le grida che si levavano tutt’attorno a lui e si girò da ogni parte vedendo ovunque uomini che venivano uccisi. Era una scena surreale. Tiravano fendenti fortissimi e i suoi uomini iniziarono a cadere a decine, poi a centinaia, poi a migliaia.

      Dario si trovò improvvisamente in piedi su un piedistallo da dove poteva vedere a perdita d’occhio solo cadaveri. Tutto il suo popolo, gente morta ammassata all’interno delle mura di Volusia. Non era rimasto nessuno. Non un singolo uomo.

      Dario lanciò un forte grido di dolore, di impotenza. Poi si sentì afferrare da dietro da un soldato dell’Impero che lo trascinava via, tra le grida, nell’oscurità.

      Dario si svegliò di soprassalto annaspando per respirare e dimenandosi. Si guardò attorno cercando di capire cosa stesse accadendo, cosa fosse reale e cosa un sogno. Udì un rumore di catene e quando i suoi occhi si abituarono al buio iniziò a rendersi conto da dove quel rumore provenisse. Abbassò lo sguardo e vide le sue caviglie legate con delle pesanti catene. Sentì dolori e botte su tutto il corpo, il bruciore di ferite fresche. Si ritrovò ricoperto di ferite impregnate di sangue secco. Il dolore era continuo e si sentiva come se fosse stato preso a pugni da un milione di uomini. Aveva un occhio talmente gonfio da stare aperto appena.

      Lentamente Dario si voltò e si guardò in giro. Da una parte era sollevato che fosse stato tutto un sogno, ma mentre considerava tutto iniziò lentamente a ricordare e il dolore tornò. Era stato un sogno, ma c’era anche molta verità in esso. Gli tornarono alla mente dei frammenti di ricordi della battaglia contro l’Impero all’interno dei cancelli di Volusia. Ricordò l’imboscata, i cancelli che si chiudevano, i soldati che li circondavano, tutti i suoi uomini che venivano massacrati. Il tradimento.

      Si sforzò di ricordare tutto e l’ultima cosa che gli venne in mente, dopo aver ucciso numerosi soldati dell’Impero, fu di aver ricevuto un colpo in testa inferto con il manico di un’ascia.

      Allungò una mano, facendo tintinnare le catene, e sentì il grosso livido al lato della testa che scendeva fino al gonfiore dell’occhio. Quello non era stato un sogno. Era tutto reale.

      Gli tornò tutto alla mente e Dario fu pervaso dall’angoscia, dal pentimento. I suoi uomini, tutta la gente che aveva amato, erano stati uccisi. E tutto a causa sua.

      Si guardò attorno nervosamente nella scarsa luce, cercando un qualche segno di qualcuno dei suoi uomini, un qualsiasi segno di sopravvissuti. Magari molti erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri come lui.

      “Muoviti!” disse una voce rude nel buio.

      Dario sentì delle mani ruvide che lo afferravano da sotto le braccia e lo tiravano in piedi, poi uno stivale gli diede un calcio dietro alla schiena.

      Sbuffò di dolore inciampando in avanti, con le catene che sferragliavano, sentendosi volare contro la schiena di un ragazzo che gli stava davanti. Il ragazzo si voltò e gli diede una gomitata in faccia, facendolo barcollare indietro.

      “Non provarti a toccarmi di nuovo,” gli ringhiò contro.

      Lì a fissarlo c’era un ragazzo dall’aspetto disperato, in catene come lui. Si accorse quindi di essere legato in una lunga fila di ragazzi disposti sia davanti che dietro di lui, uniti tra loro da lunghe catene di ferro pesante che congiungevano i loro polsi e le loro caviglie. Lo stavano conducendo lungo una buia galleria di pietra. Dei supervisori dell’Impero li prendevano a calci e a gomitate lungo il cammino.

      Dario scrutò i volti meglio che poté, ma non riconobbe nessuno.

      “Dario!” sussurrò una voce. “Non cadere di nuovo. Ti uccideranno!”

      Il cuore gli balzò in gola al suono di quella voce familiare e voltandosi vide un po’ più indietro Desmond, Raj, Kraz e Luzi, i suoi vecchi amici, tutti e quattro incatenati, tutti dall’aspetto emaciato come probabilmente appariva anche lui. Lo guardavano tutti con sollievo, chiaramente felici che fosse vivo.

      “Parla di nuovo,” sibilò un supervisore rivolgendosi a Raj, “e ti taglio la lingua.”

      Dario, per quanto fosse felice di rivedere i suoi amici, si interrogò su tutti gli innumerevoli altri uomini che avevano combattuto e prestato servizio per lui, che lo avevano seguito tra le strade di Volusia.

      Il supervisore andò oltre lungo la linea e quando scomparve alla vista Dario si voltò e rispose con un sussurro: “E gli altri? È sopravvissuto qualcun altro?”

      Pregò segretamente che centinaia dei suoi uomini ce l’avessero fatta, che stessero aspettando da qualche parte, magari prigionieri.

      “No,” giunse una decisa risposta da dietro. “Ci siamo solo noi. Tutti gli altri sono morti.”

      Dario si sentì come se gli avessero dato un pugno in pancia. Si sentiva come se avesse tradito tutti e nonostante tutto una lacrima gli scese lungo la guancia.

      Gli veniva voglia di piangere. Una parte di lui avrebbe voluto morire. Poteva capacitarsene a malapena: tutti quei guerrieri provenienti da tutti quei villaggi di schiavi… Era stato l’inizio di quella che poteva essere la più grandiosa rivoluzione cha mai ci fosse stata, una rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il volto dell’Impero.

      Ed era terminata di colpo in un massacro di massa.

      Adesso ogni possibilità di libertà per loro era andata distrutta.

      Mentre camminava, dolorante per le ferite ed i lividi, per le catene che gli affondavano nella pelle, Dario si guardò attorno e iniziò a chiedersi dove fosse. Si chiese chi fossero quegli altri prigionieri e dove li stessero portando. Mentre li guardava si accorse che erano tutti più o meno della sua età e sembravano tutti straordinariamente in forma. Parevano essere tutti combattenti.

      Svoltarono a una curva nella buia galleria di pietra e la luce del sole improvvisamente apparve davanti a loro filtrando attraverso le sbarre di ferro che avevano sopra la testa, alla fine della galleria. Dario si sentì spingere violentemente, colpito alle costole da una mazza, e si affrettò in avanti insieme agli altri fino a che le sbarre vennero aperte e gli venne dato un ultimo calcio. Si trovò fuori, alla luce del giorno.

      Dario incespicò in avanti insieme agli altri e tutti caddero insieme nella polvere. Dario sputò terra dalla bocca e sollevò le mani per proteggersi dai forti raggi del sole. Altri gli rotolarono addosso, tutti stretti da catene.

      “In piedi!” gridò un supervisore.

      Andavano di ragazzo in ragazzo e li colpivano con le mazze. Alla fine Dario si alzò in piedi insieme agli altri. Barcollò mentre, incatenato insieme agli altri ragazzi, cercava di mantenere l’equilibrio.

      Si trovarono in piedi di fronte al centro di un cortile di terra largo forse una

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