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con la mitragliatrice.

      Luke corse in avanti, abbassandosi. I proiettili lo seguirono, mandando in frantumi la macchina successiva come avevano fatto con la Lexus. Del vetro gli si sparpagliò addosso.

      Partì l’allarme di una macchina, suonò per cinque secondi, poi si fermò quando i proiettili perforarono il veicolo e distrussero il sistema di allarme.

      Luke continuò a correre, il fiato bollente nei polmoni. Raggiunse il distributore e scattò attraverso l’ampio spiazzo aperto. Le luci gettavano delle ombre inquietanti – le pompe sembravano mostri incombenti. Il pick-up sbandò nel parcheggio dietro di lui. Luke si voltò indietro e lo vide rimbalzare sul marciapiede e fare una curva stretta.

      Corse giù per un’altra stradina, poi sfrecciò a sinistra in un vicolo. Era una vecchia strada di ciottoli. Incespicò sulla superficie ruvida e butterata. Il motore del furgone gridò, vicinissimo. Luke non guardò. Giunse un cigolante scricchiolio quando il furgone rimbalzò sui ciottoli.

      Luke lo sentiva lì – il furgone si trovava un secondo solo dietro di lui.

      Il cuore gli martellava nel petto. Non serviva a niente. Girò la testa e c’era il furgone, proprio dietro di lui. La massiccia griglia si fiondava in avanti, facendosi sempre più grande a mano a mano che si avvicinava. Sembrava un’immensa bocca sorridente. Il cofano del furgone era quasi alto quanto la sua testa.

      Alla sinistra di Luke c’era un cassonetto dell’immondizia. Lo percepì, più che vederlo. Ci si tuffò dietro, cadendo sui ciottoli, atterrando malamente in un’alcova minuscola. L’impatto gli scosse le ossa, e lui si schiacciò contro al muro, tanto stretto quanto gli permetteva il suo corpo.

      Un istante dopo, il pick-up caricò il cassonetto, mandandolo a sbattere contro il muro del vicolo. Il furgone passò, mancando appena Luke, trascinandosi dietro il cassonetto. Sbandò e si fermò nel vicolo quindici metri dopo l’alcova. Le luci dei freni brillarono di rosso. Il cassonetto era schiacciato tra la portiera del conducente e il muro.

      Luke poteva riprendere l’iniziativa, ma per farlo doveva muoversi.

      “Alzati,” disse.

      Si trascinò in piedi, arma in mano, e incuneò il proprio corpo nell’alcova. Con due mani, mirò al lunotto posteriore del furgone.

      BLAM, BLAM, BLAM, BLAM.

      Il lunotto andò in pezzi. Il rumore dell’arma fu assordante. Riecheggiò giù per il vicolo e fuori nelle strade silenziose della città. Se fosse stato in cerca di attenzioni, e così era, ecco che sarebbero arrivate.

      Le ruote del furgone urlarono e si triturarono sui ciottoli mentre il conducente cercava di liberarsi dal cassonetto.

      Il passeggero – il tiratore – usò il calcio dell’arma per infrangere i resti del lunotto. Avrebbe tentato di sparare.

      Perfetto.

      BLAM.

      Luke gli sparò, facendo centro in fronte.

      L’uomo crollò, la testa a penzolare fuori dal lunotto, l’arma a sferragliare inutilmente sul pianale del pick-up.

      Il furgone sbandò di lato, la griglia che scivolava lungo il muro, il lato del conducente che adesso era proprio davanti a Luke. Luke avrebbe preso anche lui, se avesse potuto, ma non con un colpo mortale. Lo avrebbe tenuto in vita perché rispondesse a delle domande.

      Il conducente era bravo – più del suo amico. Il suo finestrino era andato in frantumi con la collisione, ma lui si era accucciato. Luke non riusciva a vederlo.

      BLAM, BLAM, BLAM.

      Luke tirò tre colpi nella portiera del conducente. Il rumore fu vuoto, metallico, quando i proiettili la attraversarono. Il conducente urlò. Era stato colpito.

      Improvvisamente il furgone sbandò verso destra, come un ladro di automobili che disegna ciambelle sulla neve. Il pianale oscillò e colpì il muro. Ma il furgone si era liberato dal cassonetto. Se il conducente ne fosse stato ancora in grado, era libero di scappare.

      Luke mirò alla ruota posteriore sinistra. BLAM.

      La ruota scoppiò, ma il furgone stridette e partì nel vicolo. Rimbalzò in strada, sbandò, e andò a sinistra. Sparito.

      Nelle vicinanze, le sirene si stavano già avvicinando. Luke riusciva a sentirle venire da diverse direzioni. Rinfoderò la pistola e claudicò fuori dal vicolo, il ginocchio che già si stava irrigidendo. Se lo era scorticato cadendo sui ciottoli.

      Un’Interceptor della polizia di Washington ruggì, le luci che splendevano e gettavano assurde ombre azzurre contro gli edifici circostanti. Luke aveva già estratto il distintivo, il vecchio distintivo del defunto Special Response Team dell’FBI. Aveva ancora un anno di vita prima della scadenza. Sollevò le mani bene in alto, il distintivo nella mano destra.

      “Agente federale!” urlò ai poliziotti che si precipitarono fuori dalla macchina ad armi spianate e puntate su di lui.

      “A terra!” gli dissero.

      Lui fece esattamente come avevano detto, movendosi lentamente e con attenzione, senza minacciare nessuno.

      “Che sta succedendo qui?” disse uno dei poliziotti afferrando il distintivo dalla mano tesa di Luke.

      Luke fece spallucce.

      “Qualcuno sta cercando di uccidermi.”

      CAPITOLO SETTE

      10:20

      Casa Bianca, Washington, DC

      Era come un funerale di Stato, la grande apertura di un parcheggio di auto usate e lo show di un comico amatoriale tutto in una volta.

      Susan Hopkins, la presidente degli Stati Uniti, con addosso un abito e uno scialle blu fatti apposta per l’occasione dalla stilista Etta Chang, guardò oltre il prato a sud i dignitari e giornalisti raccolti. Era un gruppo selezionato, e l’invito più difficile da ottenere in città nell’ultimo mese. In una soleggiata e brillante giornata autunnale, sotto il cielo azzurro, la Casa Bianca – uno dei più duraturi simboli d’America – era ricostruita e pronta all’uso.

      Gli uomini dei servizi segreti torreggiavano dietro e davanti a Susan, levando linee di tiro – le sembrava quasi di essere perduta in una foresta di uomini alti. Washington, DC, la Virginia e il Maryland erano zone soggette a restrizione dello spazio aereo quella mattina. Se non si era atterrati entro le sette del mattino, si era sfortunati.

      La cerimonia si stava allungando. Era cominciata appena dopo le nove, e si stava già dilungando oltre le dieci e mezza. Tra la processione militare d’apertura con il trombettiere che suonava il silenzio e il cavallo senza cavaliere in onore di Thomas Hayes, la liberazione di uno stormo di colombe bianche a simboleggiare i molti altri che quel giorno e quella notte erano morti, il sorvolo del jet da combattimento, il coro dei bambini e discorsi e benedizioni varie…

      Ah sì, le benedizioni.

      La casa ricostruita era stata benedetta, a turno, da un rabbino ortodosso di Philadelphia, un imam musulmano, l’arcivescovo cattolico di Washington, DC, il ministro dell’AME Zion Church di North Capitol Street e il famoso monaco buddista nonché attivista pacifista Thich Nhat Hanh.

      L’alterco che era nato al momento della scelta dei dignitari religiosi – già quello da solo aveva amareggiato Susan per l’evento. Un rabbino ortodosso? Il gruppo delle donne per un giudaismo riformato aveva dato voce al proprio fastidio – avevano spinto per una rabbina donna. Un sunnita o uno sciita per l’imam – non li si potevano accontentare entrambi. Anzi, Kat Lopez li aveva fregati entrambi e aveva scelto un sufi.

      I gruppi cattolici non erano entusiasti di Pierre. Il primo uomo degli Stati Uniti era gay? E sposato con una donna? Cani e gatti che giacevano insieme. Quella questione fu risolta quando Pierre decise di prendersi un permesso e guardare l’evento dal suo appartamento di San Francisco.

      Pierre

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