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cominciato a scriverlo. Domani aggiungo il rinoceronte.”

      Luke non disse nulla. Era stata una missione, una delle tante. L’autobiografia di Don sarebbe stata un libro lungo.

      “E qual è il punto,” disse Don. “Qui non è male. Il cibo non è neanche cattivo – be’, non è cattivo come ci si potrebbe aspettare. Ho i miei ricordi. Ho una vita. Ho messo su una routine di esercizi fisici che per la maggior parte posso fare qui, nella cella. Squat, pushup, chin up, persino posizioni yoga e tai chi. Ho una sequenza, e la eseguo per ore ogni giorno, cambio velocità, la inverto. Ha anche una componente mentale. Credo che darebbe il via a dei patiti del fitness, se la gente la conoscesse. Vorrei registrarla – Prison Power. Mi ha messo in una forma migliore di quando ero fuori nel mondo, libero di fare tutto ciò che mi pareva.”

      “Okay, Don,” disse Luke. “Questa è la tua villa per la pensione. Carino.”

      Don sollevò una mano. “Voglio vivere, è questo che ti sto dicendo. Mi faranno l’iniezione. Lo sai tu e lo so io. Non voglio l’iniezione. Senti, sono realistico. Lo so che non otterrò la grazia, non nell’attuale ambiente politico. Ma se l’informazione che ti ho dato darà risultati, voglio che la presidente commuti la mia in una sentenza a vita senza la possibilità della condizionale.”

      Luke era irritato dall’incontro. Don Morris se ne stava seduto su quello che consisteva in un bagno di pietra, a scrivere le sue memorie e a sviluppare ciò che sperava sarebbe diventata una passeggera moda nel fitness. Patetico. Luke una volta vedeva Don come un grande americano.

      La valvola di controllo del sangue di Luke passò da caldo a incandescente. Aveva i suoi problemi, e la sua vita, ma ovviamente a Don non importava tanto. Don era diventato il centro del suo personale universo, lì dentro.

      “Perché lo fai, Don?” Indicò la cella. “Cioè…” Scosse la testa. “Guarda questo posto.”

      Don non esitò. “L’ho fatto per salvare il mio paese, e lo rifarei. Thomas Hayes era il presidente peggiore dai tempi di Herbert Hoover. Su questo non ho dubbi. Ci stava portando sottoterra. Non aveva idea di come proiettare il potere dell’America nel mondo, e non aveva la propensione a farlo. Pensava che il mondo si prendesse cura di sé. Si sbagliava. Il mondo NON si prende cura di sé. Ci sono forze oscure allineate contro di noi – vanno fuori controllo se per un secondo non le guardiamo. Si fanno posto nel vuoto di potere che lasciamo loro. Vittimizzano il debole e l’inerme. I nostri amici perdono la fede. Io non potevo più restare in attesa e lasciare che accadessero queste cose.”

      “E che cosa hai ottenuto?” disse Luke. “Il paese lo sta gestendo la vicepresidente di Hayes.”

      Don annuì. “Giusto. E lei ha un paio di cojones più grossi di lui. La gente a volte ti sorprende. Non sono scontento di avere Susan Hopkins come presidente.”

      “Ottimo,” disse Luke. “Glielo dirò. Sono sicuro che sarà deliziata di sentirlo. Don Morris non è scontento della tua presidenza.” Si alzò. Era pronto ad andare. Quel piccolo incontro avrebbe dato molto su cui riflettere.

      Don saltò giù dal letto. Mise di nuovo la mano sulla spalla di Luke. Per un attimo Luke pensò che Don avrebbe buttato fuori qualcosa di emotivo, qualcosa che Luke avrebbe trovato imbarazzante, come, “Non andare!”

      Ma Don non lo fece.

      “Non ignorare quello che ti ho detto,” disse. “Se è vero, abbiamo problemi. Anche una sola arma nucleare nelle mani dei terroristi sarebbe la cosa peggiore a cui si può pensare. Non esiteranno a usarla. Un lancio di successo e il genio è fuori dalla bottiglia. Chi se la becca? Israele? E chi colpiscono quelli con le loro testate? L’Iran? Come si mette il freno a questa cosa? Si chiede un time out? Ne dubito. E se veniamo colpiti noi? O i russi? O entrambi? E se viene innescata una serie automatica di rappresaglie? Paura. Confusione. Fiducia zero. Uomini nei silos, le dita che si agitano, a indugiare sopra al pulsante. Ci sono molte armi nucleari ancora sulla Terra, Luke. Una volta che cominciano i lanci, non c’è una buona ragione per fermarli.”

      CAPITOLO SEI

      20 ottobre

      3:30

      Georgetown, Washington, DC

      Un pick-up nero lo stava seguendo.

      Luke aveva preso un volo notturno per tornare. Adesso era stanco – esausto – però ancora iperattivo e sveglio. Non sapeva quando avrebbe dormito di nuovo.

      Il taxi lo aveva scaricato di fronte a una fila di belle brownstone. Le strade a tre corsie erano silenziose e vuote. Sembravano luccicare nella luce delle lampade barocche. Mentre il taxi se ne andava, lui se ne stava in piedi sulla strada ad assaporare la notte fredda. Gli alberi stavano perdendo le foglie – erano ovunque per terra. Mentre osservava, ne scesero delle altre.

      Dall’aeroporto, era venuto dritto alla casa di Trudy. Le ombre erano tirate, ma almeno sulla strada era accesa una luce a livello dell’appartamento. Non c’era nessuno in casa – le luci chiaramente erano comandate da un timer, probabilmente un timer di poco prezzo preso in un negozietto. Lo schema era sempre lo stesso. Trudy doveva averlo impostato prima di andarsene.

      Il posto era ancora suo – Luke questo lo sapeva. Swann aveva hackerato il suo conto in banca. C’erano dei pagamenti automatici per il mutuo, le tasse per il mantenimento dell’immobile e l’elettricità. Aveva pagato in anticipo due anni di tasse sull’immobile stimate.

      Era scomparsa, ma l’appartamento c’era, che procedeva per conto suo come se non fosse accaduto nulla.

      Perché continuava ad andarci? Pensava che improvvisamente una notte sarebbe stata a casa? Pensava che i mesi passati si sarebbero cancellati da soli?

      Si fermò per qualche secondo soltanto, distogliendo lo sguardo dal pick-up, immaginandoselo lì dietro, ricordandoselo nel momento in cui, qualche istante prima, l’aveva superato a piedi.

      Era ampio, resistente, il tipo di furgone che si vedeva sui siti edili. I finestrini della cabina erano affumicati, rendendo impossibile vedere granché dell’interno. Anche così aveva la sensazione che ci fossero due ombre dietro quei finestrini. I fanali del furgone erano spenti quando prima lo aveva superato, ed erano ancora spenti – non c’erano state luci in avvicinamento ad avvertirlo. Quello che aveva tradito il furgone era stato il rumore. Riusciva a sentirne il motore brontolare.

      C’erano un distributore di benzina e un negozietto sul fondo della collina. Le luci esterne erano accese, sopra alle pompe, ma il negozio sembrava essere chiuso. Luke si portò al centro della strada, verso la luce che lo chiamava.

      Guardò alla sua sinistra e alla sua destra senza girare la testa. Su ogni lato erano parcheggiate auto costose una dietro l’altra contro al marciapiede in una linea continua. Era un quartiere affollato, e non c’erano molti parcheggi. Non c’era un modo ovvio di lasciare la strada per salire sul marciapiede.

      Scattò.

      Lo fece senza avvisaglie. Non accelerò gradualmente dalla camminata alla corsa. Un attimo stava camminando, e un battito di ciglia dopo stava correndo più veloce che poteva. Dietro di lui, il pick-up ruggì. Le ruote bruciarono le gomme sull’asfalto, lo stridio delle ruote che squarciava la notte silenziosa.

      Luke si tuffò a destra, scivolando di testa sul cofano di una Lexus bianca. Scivolò giù dall’auto e ruzzolò sul marciapiede, atterrando sulla schiena, rotolando in posizione seduta mentre estraeva la Glock dalla fondina a spalla dentro la giacca, tutto in una mossa sola.

      La Lexus cominciò a disintegrarsi dietro di lui. Il furgone si era fermato, e il finestrino del passeggero era stato abbassato. C’era un uomo con una maschera da sci che sparava da un fucile automatico con un soppressore di suono gigantesco. L’arma aveva attaccato sul fondo un caricatore a tamburo, probabilmente dodici dozzine di proiettili. Luke assorbì tutte quelle informazioni in un istante, prima che la mente cosciente ne fosse anche solo consapevole.

      I finestrini della Lexus si infransero, le gomme scoppiarono

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