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delle madri spartane ai lor figli in partenza per la guerra, allorchè, additando lo scudo di cui eran muniti: Ritornerai, dicevano, o con questo o su questo: ossia o vittorioso o morto.

      Nell'interno intanto della città gli avvenimenti prendevano una piega di una gravita straordinaria. Ad un'ora circa pomeridiana, narra una storia contemporanea5, comparvero dieci gendarmi di cavalleria, comandati dal Commesso di polizia Zamara. Entrarono dalla Piazza Mercanti e si presentarono di fianco alla piazza del Duomo. Il cavallo del commesso cadde, ed allora un uomo del popolo arditamente s'interpose fra la squadra ed il suo comandante, togliendo di mano ad un gendarme la carabina; indi, rifugiandosi dietro una bara caricata di vino, con cui si fece barriera, scaricò il fucile, spargendo il terrore e la confusione nei militari, i quali chiesero soccorso ad un corpo di ussari alla Piazza Mercanti. Quel momento fu il segnale della lotta, poichè lasciò campo al distaccamento dei granatieri di guardia alla corte di fare una sortita.

      A questo cenno storico però della storia suaccennata, noi dobbiamo per omaggio alla verità aggiungere che il signor Antonio Zamara in un suo opuscolo intitolato: Giustificazione del cittadino Antonio Zamara sul di lui operato nelle cinque giornate, ecc. (pubblicato dalla Tipografia Valentini e C.) volle negare il fatto d'esser stato lui quello che capeggiava quella pattuglia, cercò giustificare il proprio servizio nella polizia, asserendo ch'egli era stato soltanto incaricato per la direzione del corso delle carrozze ed al teatro della Scala sul palco scenico, e finalmente ritenne giustificare il suo passato col far professione di fede liberale. Sebbene possa essere avvenuto benissimo un errore di persona in quello che dirigeva la pattuglia di cavalleria, dobbiamo però notare sulle altre giustificazioni che un impiegato di polizia che immediatamente dopo il trionfo di una rivoluzione soglia proclamare di esser sempre stato di sentimenti liberali, egli è lo stesso che rendere molto sospetto quell'uomo, a meno che fosse un praticante soltanto; giacchè l'Austria allorchè poneva a soldo un impiegato politico, voleva esser ben garantita che avrebbe potuto far calcolo del suo zelo e della sua fedeltà. Ma di questi casi di bugiarde professioni ne abbiam vedute molte; avendo persino veduti commissarii superiori di polizia far da liberale appena partito il governo austriaco. A questi impostori diremo di gettar la maschera con cui hanno illuso il popolo e colla quale se ne sono approfittati per sedere a posti elevati negli ufficii costituitisi subito dopo la rivoluzione nel 1848, come dopo la partenza dei Tedeschi nel 1859: gettino la maschera giacchè l'Austria non promoveva al grado di commissario superiore uomini de' quali non avesse avute guarentigie sulla loro sincera adesione al dispotismo. In nuovo governo potevano servire gli antichi impiegati: sta bene! sarebbesi con ciò compiuta un'opera di conciliazione, avrebbe il nuovo governo usufruttato delle cognizioni che da una lunga pratica d'ufficio acquistatasi, avrebbe mostrato doversi ammettere la riabilitazione dell'uomo: ma io sprezzo coloro che dopo aver servito fedelmente l'Austria, fecero il cerretano col proclamare di averla tradita: questi son quelli capaci di disertare bandiere ad ogni volger di casi. La giustificazione quindi anche del Zamara non può essere rifiutata in tutto, ma accolta soltanto col beneficio dell'inventario.

      Procedendo quindi nella narrazione dei fatti avvenuti nel 18 di marzo, diremo che, dopo il fatto da noi narrato, circa ad un'ora e tre quarti nella contrada di Pescheria Vecchia (ora più non esistente, e la quale era situata nell'area attuale di Piazza del Duomo che da Piazza Mercanti procede verso la galleria Vittorio Emanuele), comparvero nove ussari a cavallo, i quali uscivano dalla porta di Piazza Mercanti, che ora più non esiste, e roteando le sciabole intorno quasi a sfida ai cittadini, procedevano baldanzosi.

      Quel guanto insultante di sfida fu raccolto dal popolo; imperocchè alcune persone civili e pochi facchini, che videro l'atto provocante, corsero furibondi contro il picchetto, gridando, imprecando e lanciando pietre. Il caporale, a briglia sciolta, cominciò a scorazzare per la via e, roteando la spada, ferì in una spalla un cittadino. Gli altri soldati, come se non avessero inteso il comando, a lento trotto seguirono il caporale sino a Campo Santo, che allor chiamavasi la strada esistente dietro al Duomo, oggidì chiamata pur essa Piazza del Duomo; colà giunti, nè colla lor baldanza scoraggiando punto i cittadini, due dei soldati furon rovesciati di sella ed uccisi da due colpi di fucile, usciti dalle circostanti finestre, e cinque altri ussari rimasero feriti, e i loro cavalli pure; ma malconci e coi cavalli zoppicanti potettero ritirarsi.

      La lotta era quindi impegnata seriamente, ed era quistion di vita al governo il tentativo d'ogni sforzo delle armi per reprimere quei moti; com'era quistion di vita pel popolo il sostenere arditamente la lotta, poichè ben conosceva dover cercarsi salute nella vittoria, chè nella sconfitta avrebbe trovato morte sul patibolo chi non l'aveva trovata nel combattimento.

      Gli ussari avevano rapportato l'avvenuto, e nuovi drappelli di soldati furon spediti per le strade. Mezz'ora circa dopo la ritirata degli ussari, sopravvennero nella stessa via, uscenti pure dalla Piazza Mercanti, dodici gendarmi a cavallo, i quali furon da prima accolti dai cittadini con un nembo di pietre lanciate contro di loro; ma poscia un prete da un balcone cominciò a gridare ai cittadini mentre batteva le mani: No! No! essi sono Italiani. Evviva la gendarmeria italiana! A quel grido cessò immediatamente la pioggia di sassi, ed un gendarme in atto di riconoscenza fece colla spada un segno di gratitudine al sacerdote. E il popolo rispettandoli perchè italiani, li lasciò passare incolumi; ed essi senza provocazione alcuna procedettero oltre e ritiraronsi nella corte reale. Ciò prova quanta generosità s'annidasse ne' petti milanesi in momenti che l'odio per lo straniero e la concitazione della pugna lo avevano esaltato nelle sue idee, ne' suoi affetti, ne' suoi eroici propositi.

      In Cordusio si usò un particolare stratagemma. I cittadini deliberarono di rimanersene più ch'era possibile celati, di lasciar entrare nella piazza le pattuglie, ma, appena giuntevi, il popolo unanime li asserragliava con una ben nutrita scarica di sassi da ogni finestra, ed una compagnia di dieci cittadini armati di pistole dirigeva incessantemente fuoco sulla truppa.

      Circa le due ore e mezza, un drappello di truppa, guidato da un capitano dei granatieri, portatosi verso Campo Santo, trovò impossibile procedere oltre, giacchè dai tetti lanciavansi tegole e dalle finestre sassi in quantità sulla sottoposta strada; dimodochè il drappello dovette indietreggiare sino agli scalini del Duomo, ove giunto si pose a far scariche verso il corso e verso i tetti presidiati dai cittadini armati di tegole. In quel punto il signor Francesco Maglia, dalla propria casa in contrada dei Borsinari (or più non esistente, e che era propriamente un piccolo tratto di via tra la Pescheria Vecchia e la porta di entrata nella piazza Mercanti; porta or pure demolita), e propriamente dalla casa che allora portava il N. 1029, munito di un fucile a due colpi, caricato di quadrettoni, fece una scarica sul capitano, il quale, colto nel petto, premette colla mano la ferita e ordinò immediatamente la ritirata.

      Dalle parte dell'arcivescovado si erano presentati poi i cacciatori tirolesi, e col mezzo dei loro zappatori sfondarono a colpi di scure il portello del palazzo arcivescovile nel cortile dei Monsignori. Quindi a colpi di scure atterrata la porta che dal cortile mette alla via sotterranea conducente in Duomo, e di porta in porta tutte sforzandole, potettero penetrare nel Duomo stesso, e di là con facilità salire sullo spianato superiore, da cui apersero un fuoco ben nutrito sopra i tetti onde scacciarne i cittadini che vi si erano posti per offendere colle tegole le truppe pattuglianti nelle sottoposte strade; da quelle alture mantennero anche vivo il fuoco in direzione della Piazza del Duomo, del Corso e della via che dal palazzo di corte conduce a Piazza Fontana.

      Dopo il ritorno dall'irruzione al governo di quell'immensa moltitudine, come abbiam già narrato, parte di essa erasi portata di nuovo al palazzo municipale, ed altra parte, guidata dai lampionai della città in uniforme, andava dagli armajuoli a sequestrar le armi onde armarsi.

      Infatti verso le tre ore buon numero di cittadini portossi alla rinfusa dall'armajuolo Sassi in contrada di S. Maria Segreta, chiedendo invanamente armi, allorchè un caso fortuito li obbligò a desistere. Ciò avvenne in causa dell'uscita dal Castello a quella stessa ora di tutti i granatieri che vi si trovavano, aventi un generale alla testa; questa truppa, diretta nell'interno della città, si incamminò per la contrada di san Vicenzino, avente lo sbocco in piazza Castello; colà, trovandosi ad un balcone molti signori e parecchie signore, sbigottiti alla vista di quella truppa e temendo che essa vi si portasse per intraprendere atti di violenza in causa della lotta che si era impegnata altrove nella città, quella comitiva signorile fece atto di rientrare spaventata:

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<p>5</p>

Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate in Milano.—Milano, presso Luigi Ronchi, 1848.