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p>La vita Italiana nel Rinascimento / Conferenze tenute a Firenze nel 1892

      LORENZO IL MAGNIFICO

DIERNESTO MASI

      Vi ricordate della tragedia di Vittorio Alfieri intitolata: La Congiura de' Pazzi? Come opera d'arte non è gran che, lasciando stare anche l'alterazione quasi grottesca dei fatti storici, dei caratteri e persino dei nomi dei personaggi. Ma non si tratta ora di ciò. Voglio notare soltanto un fenomeno singolare, che parmi accaduto all'Alfieri nel trattar questo tema, ed è che mentre ha senza dubbio voluto travestire in Lorenzo e Giuliano de' Medici due de' suoi soliti Egisti e Creonti, due de' suoi soliti tiranni, messi là a ricevere in pieno petto le contumelie del prim'uomo e della prima donna, non solo il carattere di Lorenzo gli è, suo malgrado, riuscito il più simpatico della tragedia, ma all'ultimo non sa più egli stesso, l'Alfieri, da che lato pende il torto maggiore; i motivi della sanguinosa catastrofe, da prima apparsigli così chiari e lampanti, si direbbe che gli si oscurano tutto ad un tratto; e per conclusione finale mette in bocca a Lorenzo queste ambigue parole:

      … E avverar sol può il tempo

      Me non tiranno e traditor costoro!

      Sembra accorgersi tardi che il tentativo di raccogliere tutta la pietà tragica sui Pazzi, anzichè sui Medici, è un grosso errore, tanto sotto l'aspetto della storia, quanto sotto quello dell'arte, com'ebbe poi a scrivergli con gran franchezza Melchiore Cesarotti, e si ferma lì come in dubbio, e in questo dubbio lascia gli ascoltatori ed i lettori della sua tragedia. La quale ritengo, avrebb'egli concepita in modo tutto diverso, se, in cambio d'averla scritta fra il 1779 e l'80, l'avesse scritta un dieci o dodici anni più tardi, quando, scoppiata la rivoluzione francese, la prospettiva della tirannide gli si era, per così dire, rovesciata e gli pareva molto più intollerabile quella che viene dal basso, anzichè quella che viene dall'alto, la tirannide dei molti, anzichè quella d'un solo.

      Se non che il fenomeno accaduto all'Alfieri mi sembra essersi rinnovato in molti altri dei più sfidati avversari di Lorenzo il Magnifico, dai contemporanei fino ai giorni nostri. Molti altri accatastano fatti su fatti e poi s'accorgono con loro stupore che i più tornano a gloria di Lorenzo, e allora non possono tenersi dal mescolare le lodi ai biasimi, o per lo meno dallo scindere l'unità di questa grande e complessa figura storica del secolo XV in modo, da farne uscire due, tre, quattro anzi, come propone il Perrens, uomini diversi, contenuti in un solo, e così poterne lodare uno o due e biasimare i rimanenti; a molti altri è accaduto di fermarsi all'ultimo, al pari dell'Alfieri, dubbiosi, esitanti, come dinanzi ad un problema psicologico di troppo difficile soluzione.

      A Lorenzo de' Medici è toccata del resto una singolare fortuna, ed è quella d'aver sempre appassionato pro o contro gli scrittori, che hanno trattato di lui, dai contemporanei fino agli odierni, come se in cambio d'aver vissuto dal 1449 al 1492 egli fosse nato, vissuto o morto pochi anni fa, come se in cambio d'un uomo del secolo XV si trattasse, ad esempio, d'un Napoleone I, gli effetti della cui gloria e dei cui disastri sono forse sensibili anche oggi nella vita europea. Eppure quei signori e principi della prima e seconda stirpe Medicea sono ben morti e sepolti! Nulla ci parla più di loro. Gli stessi edifici e monumenti d'arte, che hanno lasciato, ci ricordano ancora il nome e l'opera dell'artista, che gli ha ideati e compiuti, ma il nome del signore o del principe, che gli ha commessi, appena qualche erudito lo sa con precisione e al visitatore indigeno o forestiero poco importa oramai che si tratti dei primi o secondi Cosimi, Giuliani e Lorenzi, che si tratti dei Medici insidiatori della libertà fiorentina o dei Medici Granduchi, i quali alle loro vecchie dimore non hanno lasciato di proprio neppure il nome. A qualche scrutatore indiscreto alcuna traccia dei tempi Medicei parrà forse di scernere ancora nel temperamento e in certe disposizioni morali del popolo fiorentino (lo dico a lode, badiamo, non a biasimo di certo) ma nulla più. Chi ne dubitasse entri, qui prossimo, a San Lorenzo, in quelle sepolture Medicee. Che gelo, che tanfo di morte preistorica in quel buio della vecchia e nuova sagrestia, ma qui almeno danno lume e calore il genio di Andrea del Verrocchio e quello tra satirico e malinconico di Michelangelo! Peggio tra la sfarzosa e teatrale ricchezza del sepolcreto granducale! Qui nessun compenso possibile: la storia dice poco; l'arte non dice niente; il freddo dei marmi vi assidera, vi penetra crudelmente nell'ossa e nell'anima, e si sente il bisogno d'uscire più che di fretta, non già per odio a quei sepolti tiranni, che coi loro manti e le loro corone arieggiano innocui re da melodramma, ma per la prosaica paura d'un raffreddore.

      Ora dunque perchè, tra questi morti e così ben morti, quelli della prima stirpe Medicea appassionano gli scrittori più di quelli della seconda, e perchè tra quelli della prima Lorenzo più degli altri ha il privilegio di eccitare anche oggi odii ed amori così tenaci?

      Finchè in Italia i libri di storia furono per metà di politica, voi sapete quanto si sfruttarono l'assedio e la caduta di Firenze nel 1530 e quell'accordo del Papa coll'Imperatore, che fu la cagione immediata di tale catastrofe. Era la conclusione ultima di tutto il gran dramma, non della libertà fiorentina soltanto, ma della libertà italiana, e poichè quel Papa era un Medici ed un Medici il primo Duca di Firenze, non altro si volle vedere in tuttociò che la continuazione d'un antico disegno d'ambizione, che finalmente s'effettuava coll'aiuto dello straniero, ed i più rei parvero i primi autori di quella lunga e perseverante insidia, ed il peggiore di tutti, quegli in cui più splendidamente s'incarnarono la tradizione e il genio di tutta la stirpe. Divenne così una specie di obbligo pel liberalismo italiano non far grazia ai Medici e soprattutti a Lorenzo. Non parliamo dei contemporanei o dei quasi contemporanei. L'odio o l'amor loro troppo facilmente si spiega. Non parliamo neppure degli scrittori toscani dell'epoca granducale, medicea e lorenese. La lode o il silenzio in bocca loro sono troppo sospetti. Ma quando colla storia filosofica e Volteriana del secolo XVIII si cominciò ad opporre al Medio Evo credente e devoto il Rinascimento scettico e razionalista, eccoti, fra gli stranieri massimamente, fra gli indifferenti cioè alle nostre passioni politiche, eccoti il panegirico dei Medici e di Lorenzo in particolare, che tocca il colmo e, direi, passa il segno, nel famoso libro del Roscoe, ed eccoti di riscontro il Sismondi, scrittore di gran merito, ma uno dei santi padri, uno dei rappresentanti internazionali di quel dottrinarismo liberale e borghese, che ha nelle instituzioni repubblicane la panacea di tutti i mali, e quindi non perdona ai distruttori di repubbliche ed ai loro encomiatori. Non badò il Sismondi che nella vita di Lorenzo il Roscoe a dipinger l'uomo s'era attenuto al Valori, un coetaneo di Lorenzo, che a narrar la storia avea seguito il Machiavelli, che i documenti originali gliegli avea apprestati il Fabroni, che a penetrar nella storia letteraria lo aveano aiutato il Bandini, il Tiraboschi, autorità tutte di non poco valore; non si ricordò neppure ch'egli stesso avea tanto esaltato i Medici e Lorenzo nella sua storia letteraria dell'Europa meridionale, quanto li deprimeva nella sua storia delle Repubbliche Italiane; non badò a nulla, non volle curarsi di nulla; non altro gli stette a cuore che contrapporre al panegirico la diatriba e spinta al segno da non sdegnare esso, onest'uomo come era, di lodare quali azioni eroiche persino la dissimulazione dei Pazzi, che convitano Lorenzo e Giuliano de' Medici in casa loro a fine d'ammazzarli, persino il tasteggiare che fanno il giovane Giuliano, fingendo abbracciarlo amicamente, per assicurarsi se ha o no il giaco sotto la veste, quando lo inducono a entrar nel duomo e lo uccidono.

      È sommamente istruttiva la polemica, che ne seguì fra il Roscoe e il Sismondi, la quale andò tant'oltre che il Sismondi stesso finì per dire: “smettiamola, signor Roscoe, altrimenti si riderà di noi che ci contendiamo un tiranno del secolo XV coll'accanimento medesimo, che due rivali si contenderebbero il cuore d'una bella donna. E poi di che ci scaldiamo tanto, noi, stranieri all'Italia tutti e due?„

      Nè cadde a vuoto, sapete, quest'ultima parola, da cui s'arguirebbe esservi sui Medici e su Lorenzo in particolare la possibilità di due giudizi diversi, uno per gli Italiani, un altro per gli stranieri, perocchè questo è appunto lo scrupolo, che ha trattenuto il coscienzioso Burckhardt, nella sua classica opera sul Rinascimento in Italia, dal giudicare Lorenzo come uomo di Stato e dal decidere qual parte spetti agli uomini e quale sia superiore al loro stesso buono o mal volere (il vero problema di questa storia) nei destini di Firenze; scrupolo veramente eccessivo e che non trattenne per buona sorte il Reumont, il Buser, il Leo, il Thomas, il Perrens e tanti altri valentuomini stranieri dal fare della storia Medicea anche politica e di Lorenzo come uomo di Stato il soggetto delle loro ricerche, e dei loro studi.

      Quanto agli Italiani, finchè durò il periodo della preparazione

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