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e gridare a destra e a sinistra: – Scì, scì, scì, scì! a vulite, a vulite? – (la volete, la volete?) Facchini carichi come bestie; operai che portano o riportano lavoro, i quali gridano per farsi largo tra la folla; e se a tutto questo si aggiungano: campanacci che tintinnano al collo di capre e pecore in truppe numerose; e belati, e ragli, e nitriti, e muggiti, e organini che suonano correndo continuamente, e corni e cornette di omnibus e tramway, e sonagliere di carriaggi della campagna e strepiti di venditori di giornali coi loro incessanti: – o Pì, o Pun – (il Piccolo, il Pungolo) e la romba continua di migliaja di veicoli; e tonfi e botte e schianti di magnani, falegnami, carrozzieri e centinaja di altri operai che lavorano su la via strillando e gesticolando come pinzati dalla tarantola, si capirà come le persone più tranquille siano costrette, se vogliono intendersi fra loro, ad urlare, e quelle accanto ad urlare più forte di loro, e quell'altre più che mai; e così tutta Napoli è costretta a strillare con un crescendo tale che qualche volta, arrivandomi alle orecchie intronate il suono di campane, le ho benedette e fissandomivi con l'attenzione, mi hanno servito di riposo e ne ho preso refrigerio e conforto.

      … In un bollente vetro

      Gittato mi sarei per rinfrescarmi.

      Quante volte dal folto di questo pandemonio, allorchè udivo appena il cannone di Sant'Elmo scaricato a mezzogiorno negli orecchi di Napoli, ho mandato un pensiero e un sospiro alla languida signora dell'Adriatico, ai suoi vuoti palazzi ed al silenzio de' suoi canali che lascia intendere il fiotto dei remi d'una gondola lontana e il tubare de' colombi su le cuspidi delle sue torri affilate! – Bellissime ambedue queste regine del mare, ma quanto diversamente belle! – Su la laguna posa languidamente la bellissima e pallida matrona, stanca sotto il peso degli anni, povera in mezzo alle sue gemme, ma ricca d'orgoglio per antica nobiltà. Ai piedi del Vesuvio, la voluttuosa e procace Almea, balla in ciabatte la tarantella, e canta e suda povera di tutto, ma ricca di speranze, di giovinezza e di sangue. Quella si nutrisce di mestizia e di gloria; questa, di maccheroni e di luce. Quella coperta di laceri broccati, ma lindi; questa seminuda e lercia, dalle ciabatte sfondate alla folta chioma nerissima ed arruffata.

      LETTERA II.

      Dove si parla della popolazione

Napoli, 8 maggio 1877.

      S'io ti dovessi dipingere i colori del camaleonte o disegnarti le forme di Proteo, in verità mi sentirei meno imbrogliato che a darti una netta definizione di quello che mi è sembrato essere il carattere di questo popolo.

      È così instabile, così pieno di contradizioni; si presenta sotto tanti e così disparati aspetti dagli infiniti punti di vista da cui può essere osservato, che su le prime è impossibile raccapezzarsi. Ad un tratto ti sembreranno ingenue creature e ti sentirai portato ad amarle; non avrai anche finito di concepire questo sentimento che ti appariranno furfanti matricolati. Ora laboriosissimi per parerti dopo accidiosi; talvolta sobrii come Arabi del deserto, tal'altra intemperanti come parasiti; audaci e generosi in un'azione, egoisti e vigliacchi in un'altra. Passano dal riso al pianto, dalla gioja più schietta all'ira più forsennata, con la massima rapidità, per modo che in un momento li crederesti deboli donne o fanciulli, in un altro, uomini in tutto il vigore della parola; insomma, la loro indole non saprei in massima definirla altro che con la parola: anguilliforme, poichè ti guizza, ti scivola così rapidamente da ogni parte che quando credi d'averla afferrata, allora proprio è quando ti scapola e ti lascia con tanto di naso e con le mani in mano.

      Spieghiamoci subito. Sappi dunque che dicendoti tutto quello che ti dirò di questo popolo, intendo soltanto parlarti dell'ultima plebe. In un paese, dove i quattro quinti della popolazione sono rappresentati da questo ceto, è naturale che un viaggiatore, il quale, come me, non se ne proponga uno scopo di studio, non veda altro che quello. L'aristocrazia l'ho appena osservata a Chiaja nell'ora del passeggio, e non ne conosco altro che lo sfarzo vistoso degli abiti e degli equipaggi. Di quello che si chiama il medio ceto, ho avvicinato soltanto una ventina di rispettabili e care persone, delle quali non saprei dir mai tutto quel bene che si meritano, e non mi son curato d'altro e non sono andato più in là.

      La plebe sola, questa massa enorme di straccioni, in mezzo ai quali quasi si perdono e sembrano ospitalmente tollerati gli altri ceti, mi ha dato nell'occhio ed ho preso diletto ad osservarla, come ora mi divertirò a dirtene quello che me ne è sembrato, buttando da parte quella rancida lira che ogni rispettabile citrullo, capitando in questo paese, agguanta insatirito per cantare il vieto inno di moda alla Sirena, senza capire che è tempo di smetterla, perchè di Grazielle, di chitarre e di Sirene se n'è detto già tanto che ora basta.

      Di tutte le plebi, in mezzo alle quali mi son ritrovato girellando per l'Italia, quella di Napoli è senza dubbio la più originale e la più grottesca di tutte. Basta guardare in viso questa gente per capire che son furbi come gatti; serve dare un'occhiata alle loro membra per ammirarne la eleganza delle proporzioni e per ridere del modo, col quale le adoperano negli usi più comuni della vita. Allorchè parlano, la lingua è il membro che soffre minore attrito di tutti. Chiudono gli occhi, li riaprono e li battono come bertucce; sgualciscono le labbra; con le mani affettano l'aria in tutti i sensi; si scuotono, si torcono su la vita in modo che qualche volta la lingua si mette in riposo assoluto e conversano ed esprimono i più riposti sentimenti dell'animo con un gergo tacito che chiamerei semaforico, corrugando la fronte, stralunando gli occhi e lavorando di braccia, di mani e di dita come allievi perfetti del più accreditato istituto di sordomuti.

      Siamo a Santa Lucia davanti al banco di Salvadore Capezzuto ostricaro fisico. – «Avete vongole, compare?» Il compare alza la testa e chiude gli occhi. Dopo un momento, non avendo capito che il signor Salvadore vi ha risposto, ripetete la domanda correggendone la forma e: «Volevo un mezzo franco di vongole, ne avete?» Nuova alzata di testa e nuova chiusura di occhi del compare con una tirata di fiato significante che vuol dire: m'avete rot… «Vongole, volevo un mezzo franco di vongole, vongoleee» alzando la voce. Ora poi il compare è pieno fino alla gola; v'ha preso per uno stupido e ve lo vuol dimostrare. Rialza la testa, richiude gli occhi e interrompendovi dignitosamente indispettito, vi grida con voce robusta: – Non ne dengooo! – Ha ragione, povero signor Salvadore! E chi è quel piemontese di Firenze tanto imbecille da non capire che una alzata di testa e una chiusura d'occhi, in buon italiano vuol dire «non ne ho?»

      Che questo risparmio di fiato sia effetto d'indolenza? Non t'importerà di saperlo, ma se anche fosse questa la causa, mi somiglierebbe alla economia del prodigo, il quale risparmia ora un franco in una spesa utile, per darne via mille poi in cose superflue.

      Il loro vestiario non saprei dirti quale sia. Sparito il pretto tipo del Lazzaro, il quale aveva stabilito quasi un costume, nelle sue brachette fino al ginocchio, camicia aperta sul petto, maniche rimboccate e tradizionale scazzetta in capo, quello de' suoi eredi non ha nulla di uniforme altro che negli strappi e nel sudiciume. Un grosso volume parlerebbe meno del loro abbrutimento, di quel che lo facciano i luridi cenci che questi atleti della miseria hanno il coraggio di portare addosso sorridendo. Una balla da carbone lacera in mano di cotesta gente, parlo sempre dell'infima plebe, con pochi colpi di forbice si trasforma in una comoda sottana per signora; con pochi stracci raccattati fra le immondizie della via e qualche metro di spago di diverse qualità, la madre di famiglia ha trovato stoffa e guarnizione per provvedere di un intero tout-de-mème da ogni stagione il marito e i suoi guaglioncelli, che fino ad ora hanno avuto abiti un po' troppo di confidenza: o una sola camicia con poco davanti e meno di dietro, o un abito adamitico addirittura, tranne l'incomodo della foglia.

      Di questi vestiarii ho avuto occasione di notarne di tutti i generi. Vidi un bambino in Borgo Loreto, che se ne passeggiava allegramente in mezzo alla via, avendo addosso per unico vestito un panciotto da uomo tutto sbottonato che gli ciondolava fino ai calcagni; un altro aveva soltanto due mezze trombe di calzoni, che rette da spaghi gli coprivano le gambe dal ginocchio in giù: il resto della persona era nudo affatto. Altri ne ho veduti, non solo bambini, ma uomini e donne adulti, con abiti così laceri, formati da tante cinquantine di pezzi, retti da tanti fili, ciondolanti e spenerati da tante parti, da volerci un archeologo per capire approssimativamente a che tempo rimontino ed un matematico che risolva un problema di statica, per arrivare a comprendere come facciano a reggerseli addosso. Abbondano poi nelle giovinette i vestiarii alla Belle Hélène, voglio dire:

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