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      Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico

      LETTERA I.

      Dove si parla della città

Napoli, 5 maggio 1877.

      Eccomi a Napoli; eccomi finalmente in questa terra promessa ad incarnare il sogno dorato della mia vita. Non ti ho scritto subito, perchè la confusione del mio povero cervello, appena piovuto in questa enorme voragine, è stata tale da non permettermi di farlo. Ora però che ho ripreso fiato e che ho cominciato a riordinarmi le idee fino ad oggi sparpagliate e frullate in tondo come foglie secche dal vento, mi faccio una festa di mantenerti la promessa e di scriverti qualche cosa da questo paese. La sera stessa del mio arrivo, vidi il nostro caro Enrico che m'era venuto incontro alla stazione. Cascammo l'uno nelle braccia dell'altro come due feriti al core; ci abbracciammo, ci stringemmo come pazzi e dopo un breve, ma furioso assalto di domande che non aspettavan risposta, si montò di volo in una vispa carrozzella e subito, per non perder tempo, senza pensare a valige, a stanchezza, a nulla, una corsa attraverso alla immensa città. – Vetturino, a Mergellina! – e giù, a trotto serrato per Toledo, Chiaja e la Villa Reale, trasportato come in sogno fra la romba e il brulichìo vertiginoso d'una folla compatta che si apriva a stento al nostro passaggio e si richiudeva subito dietro alla carrozzella come una massa liquida, su la quale galleggiassero migliaia e migliaia di cappelli e di teste umane. Che brio, che vita, che baraonda, amico mio, che maraviglioso disordine era quello per il nuovo e piccolo arrivato! Mi parve a un tratto d'esser diventato invisibile, e mi sentii là dentro come un grano di miglio turbinato nei vortici d'una enorme pentola a bollore! Ma ero troppo stanco da potermela godere. Mi doleva il capo, mi frizzavano gli occhi ed avevo tanto bisogno di riposo, che nulla potei intendere nè gustare del troppo lauto banchetto così improvvisamente offerto a' miei sensi.

      Di questa prima corsa per le vie di Napoli ne ho un ricordo confuso come d'una cosa accadutami anni ed anni indietro. Ho negli orecchi il ronzìo di serenate che incontrammo lungo la riviera di Chiaja; mi pare di rammentarmi di fiammate in mezzo alla via, intorno alle quali ballavano strillando centinaia di ragazzi mezzi nudi, e dei lumi del gas che mi bucavano gli occhi, e della luna e delle stelle che brillavano cullandosi nel mare, e di Capri tuffata nei vapori del crepuscolo, e del Vesuvio! Dio, Dio, il Vesuvio! il suo pennacchio, i suoi bagliori sanguigni! Ma tutto confuso, tutto annebbiato come il ricordo d'un ballo fantastico veduto da fanciullo, o come le idee d'un nebuloso poeta del Nord che viaggia ispirato attraverso al regno dei sogni.

      Mi domandi di Roma. Ma che posso io dirti d'una città di quella natura, dopo avervi passato appena tre giorni, e dopo averla appena sfiorata al di fuori girando disperatamente dalla mattina alla sera per le sue strade intrigate? Roma è troppo grande per la mia piccolezza; non mi domandare di Roma. All'insetto che portatovi dal vento ha vagato per tre giorni su le cupole di Santa Sofia, chiederesti con lo stesso profitto le sue impressioni a proposito di Moschee.

      I suoi giganteschi ruderi che sbucano dal terreno come costole petrificate d'un enorme colosso male interrato o come avanzi d'un immane pasto di Ciclopi, mi hanno empito di sgomento e di terrore; la Roma dei Papi, dalla quale temevo trovarmi abbagliato, ha raccolto gli avanzi del suo fasto orientale e dorme ad occhi spalancati nel Vaticano; la Roma nuova, la Roma italiana l'ho appena avvertita in un ristretto spazio, dove, timida e chiacchierona, si striscia ai piedi del padron di casa e si arrabatta e brulica e sgambetta con la rettorica in una mano e la pila elettrica nell'altra, affaticandosi invano a galvanizzare un cadavere, che resta immobile sotto i suoi sforzi impotenti. Che posso io dirti di Roma? Dio assista i galvanizzatori e, nella sua immensa misericordia, non confonda le loro favelle!

      Ed ora parliamo di Napoli.

      Io non conosco i paesi dell'Oriente, nè conosco la Spagna altro che dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare una idea abbastanza esatta di quelle regioni, l'aspetto della città di Napoli mi sembra tale, fuorchè in otto o dieci delle principali vie, da porre addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille chilometri lontano dalla sua patria, balestrato per incantesimo su qualche porto della Valenza o della Catalogna.

      Vie strette, fiancheggiate da case generalmente altissime con facciate sopraccariche di balconi e che vanno a terminare, senza aggetto di gronda, in una linea tagliente e spezzata sul fondo del cielo; profusione in ogni parte di ornamenti barocchi e di vivaci colori malamente accozzati fra loro; tipi e modi degli abitanti; clima, nomi di alcune strade e persino molti vocaboli passati intatti nel loro dialetto dalla lingua spagnola, e tante e tante altre particolarità che ora mi sfuggono, tutto ricorda quel paese, da ogni lato ti corrono all'occhio o all'udito schiettissime tracce della lunga occupazione spagnola.

      Domandai ad un catalano di mia conoscenza, e glie lo domandai da vero: – Sembra spagnolo anche a voi l'aspetto di questa città? – Mi rispose: – Bendate un mio compatriotta, toglietegli la benda dopo averlo condotto in qualcuno dei vichi o delle rue di questo paese, e griderà: sono a casa mia. —

      Più sopra ho rammentato anche l'Oriente nè credo d'essermi ingannato. I fabbricati, il sudiciume e la ristrettezza delle vie; il genere di vegetazione che si vede nei giardini della città e nei dintorni; l'abitudine che questa plebe ha di vivere sulla strada; la miseria cenciosa e pigolante, in mezzo alla quale ci troviamo continuamente, tante cose insomma ti mettono in questa illusione che spesso potrai sognare di trovarti ad Alessandria od al Cairo in mezzo ai loro Fellah, ai loro buricchi e buriccai, con la sola differenza della lingua, che là saresti importunato per il bascisch e quaggiù non ti lascian pelle indosso per il soldo. Il movimento della folla poi in alcuni punti della città e in certe date ore ricorda addirittura, se non che in proporzioni minori per la varietà dei costumi, quella moltitudine che intricandosi e aggomitolandosi brulica, si sviluppa e turbinando passa sempre folta e compatta sul ponte della Sultana Validè, quale ce la descrive il De-Amicis nel suo Costantinopoli.

      Ma lasciando da parte i confronti, vieni con me, osserviamo Napoli quale è; percorriamo le sue strade nel modo che più ti piace: in carrozzella, in omnibus, in tramway, in curricolo, a piedi… ingolfiamoci in questo laberinto, in questo formicaio umano; tuffiamoci in questa allegria contagiosa, in questa vitalità febbrile e lasciamoci trascinare nella vertigine di questa ridda, dove i sensi non bastano alla faticosa opra, verso la quale irresistibilmente si sentono attrarre e dove spesso rimangono sopraffatti e spossati sotto l'attrito continuo d'un eccitamento eccessivo.

      La prima impressione che si riceve entrando in Napoli, è quella d'una città in festa. Quel chiasso, quello strepito, quella turba di veicoli e di pedoni che si affollano per le vie, ti sembra, a prima vista, che debba essere cosa transitoria, un fatto fuori dell'ordinario, una sommossa, una dimostrazione o che so io. Volti gli occhi in aria: una miriade di finestre ed altrettanti balconi e tende che sventolano al sole e fronde e fiori e persone fra quelli affacciate, ti confermano nella illusione. Il frastuono, le grida, gli scoppi di frusta ti assordano; la luce ti abbaglia; il tuo cervello comincia a provare i sintomi della vertigine, i tuoi polmoni si allargano; ti senti portato a prender parte alla entusiastica dimostrazione, ad applaudire, a gridare – evviva! – ma a chi? La scena che si svolge davanti ai tuoi occhi non ha nulla di eccezionale, nulla di straordinario; la calma è perfetta, nessuna forte passione politica agita questo popolo, ognuno va per le sue faccende, parla de' suoi affari; è una giornata come tutte le altre, è la vita di Napoli nella sua perfetta normalità e nulla più.

      Strano paese è questo! Quale impasto bizzarro di bellissimo e di orrendo, di eccellente e di pessimo, di gradevole e di nauseante. L'effetto che l'animo riceve da un tale insieme è come se si chiudessero e si riaprissero continuamente gli occhi: tenebre e luce, luce e tenebre. Accanto alla elegantissima dama, un gruppo di miserabili coperti di luridi cenci; immondizie e sudiciume fra i piedi, su in alto un cielo di smeraldo; da un lato una fresca veduta della marina, dall'altro pallide facce di miserabili che si affollano su l'apertura della loro tenebrosa spelonca; là in fondo, un gruppo di azzimati dandy fa cerchio intorno al cestello odoroso della fioraia, accanto uno sciame di guaglioni in camicia si svoltola tra le immondizie; qui un'onda profumata dal fiore d'arancio t'inebria, due passi più avanti la padella del friggitore ti strazia l'olfatto; la mesta canzone della comarella, che dolcissima scende dal balcone fiorito t'inebria, il raglio potente d'un somaro ti fracassa gli orecchi. E così potrei seguitare all'infinito.

      La

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