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scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, sí come nel libro Delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: – Che dite? mancaci cosa alcuna ad essere equale al Culice? – Culice fu un libretto metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da comparare allʼEneida: e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼEneida; della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse, maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò, ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.

      «Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene», cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi fatte da lui con Turno re deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima professione, come costoro erano con Virgilio.

      «Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si verificasse.

      «E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno», che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi, come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice, «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da credere, percioché lʼautore non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente, e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci dispiace.

      «E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per Virgilio pel primo dellʼEneida, laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

      Sum pius Aeneas, fama super aethera notus.

      Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né è da credere lui senza gran cagione

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