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Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi, seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

      «E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.

      «Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».

      Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu, dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero, e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse: – Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio. – Visse appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi: Etica, Politica ed Iconomica; né delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò, trapassò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua Metafisica appare. E, brevemente, egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone: la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri. Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che, oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e maggior di tutti.

      «Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».

      Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica De patientia, il padre suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia, alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che si legge nel libro De vitis philosophorum; ma santo Agostino, nel libro ottavo De civitate Dei, scrive che egli fu uditore dʼArchelao, il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni tusculane: e in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente Calcidio Sopra il primo libro del Timeo di Platone, e come Agostino nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò. Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo. Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo Noctium Atticarum, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel principio della meditazione gli poneva.

      Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia, nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «hoc scio, quod nescio». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò. Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito, e

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