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di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!

      Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.

      – Veramente, – diss'egli, – non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —

      Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.

      – Zio, come ti son grato! – esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.

      Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.

      – Come son sciocco, non è vero? – diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. – Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre… come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —

      E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.

      Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.

      – Zio, – diss'egli, – che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti…

      – Che! che! – interruppe il Gonzaga. – Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.

      – Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; – osservò modestamente Orazio Ceprani.

      Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.

      – Permetti, – incominciò, – che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.

      – Ah, ci conosciamo da mezz'ora; – rispose il Gonzaga. – Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.

      – Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari… Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto…

      – Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; – rispose il Gonzaga. – Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!

      – Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.

      – Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.

      – Come si fa? – disse Arrigo, sospirando. – Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto… e perciò rimarrai.

      – Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —

      Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:

      – Sì, ero venuto da te. Arrigo… Ma ora che c'è tuo zio…

      – Non badi a me; – interruppe il vecchio. – Io mi ritiro in buon ordine. —

      Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!

      – No, finalmente, perchè? – diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. – Con lei si può parlare. Arrigo, – proseguì, rivolgendosi all'amico, – ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie…

      – E ci perdi ottomila lire; – notò Arrigo Valenti. – Te lo avevo pur detto!

      – Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro… Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.

      – Ah! mi duole davvero! – esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. – Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho. —

      Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.

      Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.

      – Ma le ho io! – diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. – Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; – soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; – credevo di aver a fare con un nipote… d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille. —

      Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io, veramente…„ di un effetto assai comico.

      – Non faccia complimenti, la prego; – ripigliò il Gonzaga. – Ella è amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte, non mi vuole per creditore?

      – Oh, che dice ella mai? – mormorò il Ceprani, commosso. – La ringrazio, ed accetto, perchè il bisogno era urgente, e sono ottantamila lire che mi costerà questa liquidazione di gennaio. Grazie anche a te, Arrigo, – soggiunse, mentre intascava i cinque biglietti, – perchè in casa tua ho ricevuto il benefizio. Vado dunque a raccogliere tutte le mie forze, i miei ottantamila franchi, ed ahimè non per condurli alla riscossa. Si pranza insieme, quest'oggi?

      – Perchè no? – disse Arrigo. – Si potrebbe anzi incominciare dalla colazione, se hai tempo.

      – Lo troverò. Per che ora?

      – Ma, non saprei; bisognerà sentire mio zio.

      – Oh, non badare a me; – disse il Gonzaga. – Io son vecchio, e i giovani sentono forse più presto le voci dello stomaco.

      – A mezzodì, allora? O alle undici?

      – Sia pure per le undici.

      – Tra un'ora, dunque; – conchiuse il Ceprani, guardando l'orologio. – Mi diano il tempo di correre alla Borsa, e sono subito di ritorno. Vuoi nulla, tu?

      – No, – disse Arrigo, – ci ho il mio agente. A rivederci. E bada, non più Ausonia, per ora! —

      Orazio Ceprani rispose con gesto, che voleva dire: “ho capito„ e poi si dileguò, come da corda cocca.

      Arrigo

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