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Don Venanzio.

      Il marchese sorse in piedi vivamente e disse con pari vivacità:

      – Ah lui!.. È un'altra cosa… Fatelo entrare.

      Due minuti dopo s'introduceva in quel salotto la bella testa veneranda del vecchio parroco di villaggio.

      CAPITOLO II

      Don Venanzio portava bravamente la più bella vecchiaia che si possa vedere. Nella sua faccia, che era tutta un'espressione di bontà, si manifestava la pace soave d'un'anima onesta; nel suo sguardo, ancora vivace, brillava la fiamma di quell'affetto di cui Cristo fu modello divino, la carità. Intorno al capo la capigliatura folta ancora ma bianchissima gli faceva come un'aureola di candore. Vegeto e robusto della persona, a dispetto de' suoi ottant'anni camminava dritto e sollecito; vestiva abiti alla foggia pretesca, di panno grossolano, ma pulitissimi; le sue grosse scarpe splendevano per la fibbia d'acciaio sempre lucida come uno specchio. Aveva quasi sempre seco due compagni fedelissimi: la sua mazza di giunco col pome rotondo di falso avorio e Moretto, il terzo o il quarto d'una dinastia di cani volpini che si erano succeduti nell'affezione del buon parroco, nella fedeltà al padrone e nell'ufficio poco gravoso di custodire la canonica, efficacemente difesa senz'altro dall'amore e dalla venerazione di tutti i terrazzani. Questi due compagni Don Venanzio aveva ora lasciati nell'anticamera, il bastone in un angolo e il cane accovacciatovi presso coll'intimazione fattagli a dito indice alzato di non muoversi di là, fino al ritorno del padrone.

      Il nostro buon sacerdote, insomma, era l'incarnazione la migliore e la più compiuta dell'accoppiamento d'una mente sana e d'una coscienza tranquilla in un corpo sano, ideale della personalità umana.

      Il marchese, che era rimasto in piedi, fece per quel povero prete di campagna – un plebeo ancor esso, vivente in mezzo ai bifolchi – ciò che la sua dignità e la sua autorevolezza non l'avevano avvezzo a fare nemmeno pei più titolati e superbi maggiorenti dello Stato, gli mosse all'incontro colla mano tesa, un sorriso di vera cordialità sulle labbra.

      – Eh buon giorno Don Venanzio, diss'egli: sia il benvenuto tra noi.

      Don Venanzio toccò la mano che gli veniva porta così amichevolmente, e lo fece con rispettosa deferenza, ma insieme con franchezza, senza suggezione.

      – Eccellenza: disse, mentre il marchese tenendolo per mano lo conduceva verso il camino e gli additava una poltroncina in faccia a quella da cui egli s'era alzato poc'anzi; Eccellenza, sono venuto a chiederle una grazia.

      Baldissero sorrise con aria che non dinotava voglia alcuna di rispondere con un rifiuto.

      – Ah! le grazie che Lei dimanda so già quali sono; si tratta di aiutarla a fare un po' di bene a qualche povero disgraziato.

      – Eh! press'a poco… è qualche cosa di simile: disse il buon parroco con tutta ingenuità aggiustandosi nella poltrona, mettendo il suo tricorno sulle ginocchia, incrociando le mani sul cappello e guardando in volto il marchese coi suoi occhi limpidi e schietti come una fontana di montagna. Le ho detto subito l'affar mio, da quell'impaziente ch'Ella sa… che quando ho in capo qualche cosa che mi preme, non c'è verso che io possa indugiare a tirarla fuori… Ma ora, mi permetta, Eccellenza, che le domandi notizie della sua salute e quelle della cara madamigella Virginia… e del contino Ettore e del cavaliere Edoardo e del cavaliere Amedeo… ed anche della signora marchesa.

      Baldissero sorrise alla poca diplomazia del buon prete, che a dispetto d'ogni convenienza gerarchica faceva passare innanzi nell'ordine della sua rassegna quelle persone che più lo interessavano.

      – La ringrazio, stiamo tutti bene: rispose. Edoardo ed Amedeo sono nell'Accademia militare. Ettore e Virginia e mia moglie la li vedrà fra poco, poichè Ella è nostro ospite…

      Don Venanzio fece un cenno come per iscusarsi.

      – Oh la è cosa intesa… e ne la prego: insistette il marchese. Ma veniamo tosto a quello che è il vero motivo della sua venuta, la buona opera ch'Ella ha bisogno di fare.

      – La buona opera la deve far Lei: disse con tutta semplicità Don Venanzio. Si tratta d'un giovane per cui sono già venuto a supplicarla altre volte… parecchi anni sono… e quasi per un motivo identico… un povero trovatello allevato nel mio villaggio.

      Il marchese prestò una viva attenzione e parve raccogliersi per iscrutare nella sua memoria.

      – Un trovatello allevato nel villaggio? diss'egli con molto interesse: e lo si chiama?

      – Maurilio Nulla.

      A questo nome il marchese non nascose un certo moto di sorpresa.

      – È strana, diss'egli: quell'individuo di cui Ella mi parla, è probabilmente il medesimo del quale stavo adesso occupandomi… Maurilio Nulla: sì, è lo stesso nome; trovatello: è la condizione sua di cui egli si lamenta…

      Prese sulla mensola marmorea del camino lo scartafaccio che vi aveva deposto e lo porse al parroco, soggiungendo:

      – Conosce Ella la scrittura di quel suo protetto?

      – Signor sì.

      – Ebbene, guardi se la è questa.

      – Appunto.

      Il marchese stette un momento sovra pensiero.

      – Ella mi disse avermi parlato altre volte di codestui.

      – Sì signore: quattro o cinque anni sono.

      – Aiuti un poco la mia memoria; mi par bene d'averne un barlume di ricordo, ma non posso afferrare nulla di preciso.

      – Questo giovane era stato arrestato sotto l'imputazione d'un delitto del quale io, conoscendolo per bene, lo sapevo assolutamente incapace. Son venuto ad invocare per esso la protezione di V. E., e grazie a questa potè venire scoperta la sua innocenza.

      – Ah! ora mi sovvengo del tutto: esclamò il marchese. Uscito di carcere, stato ammalato all'ospedale, quel giovane privo di mezzi mi fu da Lei raccomandato perchè gli trovassi alcun impiego delle sue facoltà, ch'Ella diceva straordinarie, ed alcun guadagno dell'opera sua. In grazia di quel talento ch'Ella mi vantava… in grazia di quello strano suo nome… voglio dire delle circostanze in cui quel tale si trovava, avevo deciso di accoglierlo io stesso come una specie di segretario; ma egli non si presentò mai da me, e parve che cotal condizione troppo non gli sorridesse.

      – Fu in causa d'un amico: disse il buon Don Venanzio mortificato, come se egli avesse da scusarsi di una colpa; mentre io supplicava per lui da V. E. un impiego nella sua casa, quell'amico lo allogava altrove, ed egli che nulla sapeva di quanto io stava tentando, accettava senz'altro.

      – Sta bene… Mi ricordo che Lei così mi ha detto anche allora… Ma adesso, entrando, signor parroco, mi ha fatto intendere che la veniva a domandarmi per codestui la medesima cosa che mi chiese la prima volta che le toccò di parlarmene. Ella dunque sa che il suo protetto fu arrestato; e ne sa Ella eziandio la cagione?

      – Sì, Eccellenza. Vengo adess'adesso dalla casa dove quel giovane abita. Io gli voglio bene, sono io che l'ho educato, posso dire; gli ho insegnato tutto quel poco ch'io so…

      Il marchese lo interruppe in gentil guisa con un sorriso leggermente malizioso:

      – Mi rallegro con Lei. Tutte le belle teorie politiche e sociali che si contengono in quel manoscritto è dunque Lei che glie le ha ispirate?

      Don Venanzio tornò a confondersi in una nuova mortificazione.

      – Ah! rispos'egli, io gli ho appena appena mostrato a spiegar l'ali; quando fu in grado di volare, il suo volo era più alto e potente del mio, perchè io potessi accompagnarnelo e dirigerlo ancora…

      – Badi che quel giovinotto è tentato dalle ambizioni d'Icaro e corre rischio di fare un dì il capitombolo medesimo.

      Il parroco si curvò nelle spalle, chinò la testa ed allargò le mani in una mossa di cordoglio e di rassegnazione:

      – Eh lo so bene: disse: ma spero nell'aiuto di Dio che lo salvi… La Provvidenza che gli ha dato tanto ingegno non vorrà che questo torni nocivo o si consumi inutile. In fondo poi alla

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