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è più bello della melodia che il compositore trovò per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella musica religiosa di Bach, la condizione del contenuto essendo convenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach, eccettuati alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano sempre in arie e in duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e imparruccato dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con sempre nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da Florindo e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni melodrammatiche dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica la forma musicale (talvolta bellissima se staccata dal contesto col quale ha relazioni che noi non possiamo sopportare); ma retorica, le condizioni in cui è sorta tale musica; la quale anche ai contemporanei parve bellissima e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica veramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchio motivo, la volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.

      E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzionalità aventi ineluttabili ragioni storiche, va cercata la spiegazione di quel fatto che notava lo Hanslick, che nulla è più cedevole al tempo e alla moda (cioè alle mutevoli condizioni del superficiale sentimento popolare) delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno infatti pianto alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini, come i nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per ignoranza. E, parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle victorughiane idealizzazioni del buffone di corte Rigoletto, come i loro rispettivi bisnonni erano andati in solluchero alle graziette lascive e seducenti della Serva che non contenta del possesso carnale d'un vecchio padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio con un bel matrimonio. Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto e chissà quanto più su.

      III.

      Ciò che simboleggia Pietro Mascagni nell'opera moderna italiana

      Pietro Mascagni, ho detto, è un discendente in linea retta degli operisti italiani. Al pari di loro, egli non mira che a destare i tumultuosi fremiti salienti dalle platee, ruinanti come uragano dai loggioni, con delle scene che afferrino l'attenzione del pubblico alla prima audizione, con dei finali coronati di quelle folgori degli ottoni, senza delle quali il volgo non crede all'esistenza del miracolo. Nelle sue opere scorrono, ondeggiano dal principio alla fine, fiumane di melodia che inebriano le anime di ebbrezze facili e passeggere. Un motivo di Beethoven o di Wagner difficilmente diventerà possesso comune, il contenuto di cui è riempito essendo soltanto parzialmente accessibile al pubblico, il quale non ama le conquiste faticose. La profondità e la fedeltà dell'amore non son molto comuni tra le persone volgari e le opere dei classici (ossia dei grandi) non trovano nel popolo la pazienza vigile che esigono per esser comprese, la qual pazienza di comprensione è già essa quasi una genialità, educata a lungo e sviluppata con rigore di cultura.

      Il canto in Mascagni è sottolineato da un'orchestrazione, a cui la ricchezza coloristica dei timbri non toglie un carattere di semplicità affatto contrario alla complessità tematica delle grandi creazioni sinfoniche. Per i nostri vecchi le opere di Pietro Mascagni possono significare ai loro cuori e cervelli conclusi nel loro ormai giovanile passato, un intedescamento della musica. Ma questa è un'illusione. È vero bensì che anche l'opera mascagnana ha risentito del decadimento del bel canto, e del sopravvento su questo dell'orchestra a commentatrice del dramma. Ma, nella realtà, la melodia, sia pur trasmigrata dalle fresche gole umane nei numerosi strumenti dell'orchestra, è rimasta la vecchia melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza. E gli intermezzi mascagnani, i preludi, e i famosi commenti orchestrali alla fine o d'un'aria o di un duetto (commenti che sono poi stati imitati da tutti i mediocri compositori moderni italiani, compresovi uno non mediocre, Lorenzo Perosi), che altro sono se non sempre, melodia, vecchia melodia italiana, meglio vestita, più sonoramente versata negli orecchi degli uditori, più argutamente organizzata? E non se ne sentono infatti intuonar gli echi per le strade insieme coi motivi più amati di Rossini, di Bellini, di Donizzetti, di Verdi? Oh! non temano i nostri vecchi! non sarà Mascagni che intedescherà l'opera italiana! Egli ha ereditato una delle nature più italiane (nel senso popolare) che ci sieno mai state. Se i vecchi non lo capiscono, è che alla retorica dei cori di guerrieri medioevali, di sacerdoti romani, di schiave orientali, etc., etc., è succeduta una retorica più nuova, la retorica delle lavandaie giapponesi, dei ladroni scozzesi, dei contadini alpigiani, e più di tutto, la ormai non più recente retorica dell'enfasi strumentale «che dall'orchestra prorompe». Tutte cose che se non son consentanee ai gusti dei fedeli del Prati, di Victor Hugo e del Guerrazzi, non vogliono precisamente dire che Pietro Mascagni non appaia nella sostanza italiano quanto Verdi agli italiani d'oggidì.

      Certo profondamente diversa è la sua personalità da quelle dei maestri italiani della vecchia scuola. Al periodo epico del risorgimento di cui fu interprete fedele il romantico Verdi, è successo un periodo in cui l'Italia sembra ritornata per un lato quasi ai tempi di Rossini, per un altro ha acquistato una qualità dolorosa, che allora non aveva, un dolore cioè di passione che fa soffrire, un rifiorimento più agitato della malinconia erotica dei Paisiello e dei Pergolese. E Mascagni è il cantore delle sensazioni fresche, della carne giovanile, della cieca salute, del riso gaio della folla nei giorni di festa, e del dolore della carne tradita per un'altra carne. Certo a lungo andare questo trionfo di carne, di riso, di allegria, di dolore che non piange che per amore, per amore, per amore, è monocorde, è monotono, e stanca. Ma quali melodie sane non spicciano fuori da questa vena limpidissima! Che orgia di canto! che gaiezza rimbalzante di suoni, nitidi, tinnuli, sgargianti come i colori che si vedono in una fiera! Certo, e in un senso è bene, si può essere ostili all'autore della Monferrina dell'Amica. Ma anche i più ostili, coloro che più si sono allontanati da questa arte così angusta d'orizzonte, per essere stati bruciati da ben altri spiriti, profondi come abissi solcanti fino alle viscere l'umana natura, non possono fare a meno di ridere a scrosci, di urlar di gioia e di dolore bestiale con questo mago che al posto del cuore ci ha un nido, donde balzano alate le più fresche canzoni d'un popolo.

      IV.

      Mascagni nella musica europea

      Forse in nessun tempo la tenuità d'un compositore italiano non profondo, ma sincero, non sapiente, ma astuto, fu più discussa, anzi talvolta neppure onorata della discussione – molti critici si arrestano dinanzi alla volgarità di Mascagni e non osano progredire più in là – , come oggi accade per Mascagni. E se ne comprende facilmente il perchè. Ai tempi di Rossini, per es., nonostante che il grandissimo e allora ignoto (o quasi) Beethoven impersonasse e superasse le grandi correnti letterarie e umane del romanticismo, l'Europa era solcata da larghi soffi di leggerezza un po' scettica, e, sebbene l'opera buffa e l'opera seria avessero trovato dei compositori molto più eletti e, a loro modo, più profondi di Rossini (ad es.: Cherubini), fu però Rossini che con il fuoco indiavolato del suo brio di gaudente li superò tutti, vellicando in modo insuperabile quella voglia matta di divertirsi, e creando un capolavoro magnifico d'opera comica, il Barbiere di Siviglia, e un capolavoro altrettanto magnifico d'opera seria, il Guglielmo Tell. Se non che erano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi alla superficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasi che la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filosofi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale, dandole chissà quale interpretazione fantastica. Così Schopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista e di viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ridente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spirituale Nietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai piè leggeri come il vento» della Carmen, la quale per lui simboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibile adorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro, quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesse per il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».

      Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica: se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musica. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto ai poeti e ai filosofi.

      Il

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