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che non ritragga giusto la cosa; torna meglio in chiave rassomigliarli alle processioni delle povere orfane, che talora mi diedero il male di mare nel vederle per le vie di Torino; tagliate tutto a un modo dalle forbici della stupidità messe in mano alla beghineria: povere anime! con gli occhi bassi, le mani soprammesse sul ventre, con carni, che paiono mozziconi di candele avanzati alla novena di san Luigi Gonzaga. – E come in fondo alla processione di queste poverine anime tu vedi spuntare una figura, che tu credevi impossibile, eccettochè nel sogno dopo avere cenato con ceci, e pesce salato, e quì in Torino trovi viva e verde ad ogni svolta di canto; un mascherone da fontana per virtù d’incanto fatto capace di buttare fuori dalla bocca invece di sprilli di acqua versetti di salmi penitenziali, torto, e bistorto; con certe braccia lunghe da allacciarsi le fibbie delle scarpe senza pure chinarsi; e certi piedi, che nei giorni di riotta cittadina dispenserebbero da costruire barricate; un prete insomma in roccetto bianco, sul quale, caso mai presumesse significare la candidezza della coscienza di cui lo porta, si avrebbe a scrivere come i notari quando saltano un foglio nei protocolli: alba «per errorem!» Un prete con un berretto quadrato in capo su cui i tre spicchi predicano come tre predicatori in bigoncia, chè un prete non può essere bagnato e cimato prete dove non gli manchi uno spicchio o d›intelletto, o di cuore, o sovente di ambedue. – La similitudine capisco ancora io, che passa le proporzioni; di così lunghe ne adoperava Omero, ma comprendo del pari che se Omero mal fece non porge scusa a me di comportarmi peggio: insomma pari a questo prete in fondo delle processioni ti si mostra lontano lontano allo sbocco della via la cupola della cappella regia, che verun pasticciere al mondo nei suoi estri di pastafrolla ardirebbe imitare in un pasticcio quando anco glielo commettesse la demenza in persona pel dì delle sue nozze; e se dico il vero me ne richiamo a tutti, anco ai Cafri, anco agli Esquimesi, non però ai Moderati i quali con duegento cinquanta voti sarieno tomi da preferire quel coso alto che sta sul duomo di Torino alla cupola del Brunellesco. E la cattedrale di Torino o non vi pare ella una trappola tesa dalla religione per chiappare i topi miscredenti? Torino egemonico per arti in Italia con quel palazzo regio ameno quanto lo Spielberg villeggiatura allestita per gl’Italiani dalla nostra amica Austria! Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette al Gombo in foce di Arno! D’incanto passando in incanto, ecco il palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l’ultimo giorno di carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all’aula dei senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra crescono all’ombra dell’aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci. Certo bell’umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose: – che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare via via i senatori defunti se n’era allestito un semenzaio sotto casa. – Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei Senatori, come diceva lui, in Senato non ce ne ha che tre quarti, tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l’arebbono a mettere? – E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza, guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l’architettura concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa l’effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l’architettura non fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve definire così: ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il senso comune; colà non occorre linea che vada diritta; storta la facciata, storte le scale di cui la prima a gradini convessi, e la seconda concavi, storta la sala: chi l’architettò e’ fu un Guarini, che Dio riposi, e deve averlo disegnato in profezia, che un dì avesse ad essere la stanza del primo parlamento italiano, conciosiachè la strage del buon senso architettonico di cotesto arnese non può trovare degno riscontro altro, che nella strage di parecchi sensi, che quivi dentro tutto dì menano i Rappresentanti della nazione.

      Delle opere di scoltura questo dirò, che lo stesso signore Azeglio, non Massimo, ma quell’altro, che discorreva di arti, tutto che Azeglio fosse, gittò gli argini, buttando fuori roba da chiodi: se vuoi trasecolare va di grazia nella piazza del Municipio, e quivi contempla in mezzo quel gruppo che sembra composto di spinaci, ed è di bronzo, di parecchie figure armate in guerra di maglie di seta, disposte in atti di morto, di chi va a morire, e di chi ci manda; il Conte verde, però che il gruppo rappresenti l’effigie del Conte verde, (e tu lettore hai da sapere come qualmente in casa al tuo re ci fosse un Conte verde, e poi un Conte rosso: quanto al Conte verde, come vedi, egli si attenta comparire per le piazze; circa al Conte rosso ei se ne sta chiotto nella sua antica sepoltura pauroso, che il Questore di Torino non lo facesse portare diritto come un cero nella parte postica del palazzo Madama) al quale nell’uno, vale a dire nell’uno dopo il mille, un giorno venne voglia di piantare il ceppo donde nacque il nostro re in linea diritta diritta più di un fuso, secondochè attestano documenti registrati in Duomo, ed Ercole Ricotti nella Monarchia Piemontese stampata in Firenze dal Barbèra, il Conte verde, dunque in vaga positura mimica tiene levata la mazza d’arme su la persona di un guerriero circonciso (la circoncisione non si vede, ma chi voglia alzargli la camicia di bronzo la potrà vedere) il quale inclinato il fianco lo sta a mirare con l’estasi degli apostoli quando pioveva giù a stroscia lo Spirito Santo, e par che dica: «me la dai, o non me la dai, chè ad aspettarla io mi sento stracco?»

      Hacci un simulacro del Principe Eugenio, che un po’ mi parve dall’uggia di sentirsi da tanto tempo murato su cotesto piedistallo lo abbia preso la mattana, e venuto in furore con la parrucca arruffata, le vesti scinte, il collo ignudo voglia pigliare una rincorsa per andarsene, Dio sa dove, a finire; ovvero, povero uomo! (anche agli eroi siffatte cose incolgono) soprapreso nella notte dalla colica sembra, ch’ei siasi lanciato giù dal letto per arrivare laggiù colà dove confida rinvenire refrigerio. Questa smania di fare correre le statue, qualche malizioso affermerebbe, che a Torino si fa più intensa alla stregua che gli uomini vivi ci stanno fermi; di vero anche nel giardino pubblico il simulacro del Generale Pepe, non ricordando essere di marmo, scappa via; lo scultore dove non potè tradire la verità fu nella statua di Cesare Balbo: quelli, che lo videro vivo, ed ora lo contemplano di marmo, non si accorgono della differenza; però se marmo sono i suoi scritti, e marmo i suoi concetti, di marmo, non fu il suo cuore, quando balenò la speranza di erigere il monumento della Italia, e per la Italia diede più che il sangue del proprio cuore, quello dei suoi figli, e volontieri anco credo, che da quel marmo uscirebbero fiamme se gl’Italiani pigliassero il partito di mettere ogni cosa allo sbaraglio per diventare una volta padroni di sè. La statua della Italia pare una gessinaia lucchese che venda i medaglioni del Manin; quella del Gioberti in forma di modello sul quale i sarti provano i vestiti, a capo basso, con una mano al petto ti rappresenta giusto un penitente, che dica: mea culpa per avere creduto, e dato ad intendere, che la Italia potesse sorgere a dignità col Papa a Roma; del monumento di Carlo Alberto basti questo, che chi avesse a lavorare una saliera potrebbe cavarne un disegno, ma non dei migliori; anco su la piazza del Municipio havvi una statua di marmo di Carlo Alberto in tutto simile ad un cero pasquale cascato da parte. A mio giudizio la statua che solo ne meriti il nome è quella equestre di Emanuele Filiberto. Quanto ad arti pertanto immagino, che egemonìa non avrebbero a volere esercitare i Piemontesi, almeno mi parrebbe, poi facciano loro! Vediamo se in lettere a cosiffatta egemonia possano i Piemontesi aspirare; io mi guardo bene da contrapporre ai vanti loro Dante, e gli altri, imperciocchè se stesse a me ogni toscano, che rammentasse il nome di cotesti grandi indarno, io lo vorrei condannato in carcere per quindici dì con gli ultimi cinque inaspriti di pane e di acqua come soleva ordinare la buona anima del Radetzky, e poi gli fosse fatto divieto di mai più ricordarli finchè la Toscana non avesse partorito almanco una mezza serqua di uomini capaci di arrivare alla caviglia del piede

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