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non pareva di sangue, imperciocchè il suo volto fosse sicuro, la voce ferma, nè le membra gli tremassero, come suole avvenire tra la gente della sua fatta, allorchè si apparecchiano a commettere un delitto.

      Intanto Rogiero, bendati gli occhi, pose il suo braccio sotto quello di Roberto, il quale con amorosa diligenza lo condusse per cammino tortuoso e diverso. Percorsi circa cinquecento passi, fu fatto fermare. La guida dette un segno, battendo le mani; allora fu abbassato un ponte, che, per quant’arte avessero adoperata a nasconderne il rumore, Rogiero intese nondimeno calare. La guida lo invitava a proseguire il cammino, ed egli, passando sul ponte, lo sentì lastricato di pietre come la strada che aveva fino a quel punto percorsa, e questo certamente a bella posta, onde la gente bendata che vi passava sopra non se ne accorgesse. Rogiero poi, sia che fosse dalla natura di più squisiti sensi dotato, sia che qualche trascuranza fosse avvenuta nel calarlo, si accôrse benissimo del ponte, ma non ne fece sembianza, e tirò innanzi.

      Così dopo ch’egli ebbe con infinite precauzioni trapassato un numero maraviglioso di corridori e di camere, intese una voce diversa da quella del suo conduttore, che in suono assoluto gli disse: «Potete togliervi la benda.»

      Obbediva, e lo sguardo tornato al suo ufficio si volse curiosamente d’attorno per conoscere il luogo. Questo però non era singolare in nulla: presentava vastissima stanza fabbricata a volta; in parte illuminata da una lampada, che gettando tutta la luce sopra Rogiero, teneva quasi all’oscuro due uomini sedutisi ad una tavola posta a qualche intervallo da lui. Rogiero guardando se la sua scorta lo avesse abbandonato, si accôrse che su l’entrare di quella stanza se n’era partita. Pose pertanto ogni sua attenzione ai due personaggi rimasti. Le vesti loro apparivano semplicissime; nulla accennava in essi altezza di sangue, ed opulenza di stato; nè altra cosa era osservabile in loro, se non che il volto quasi tutto coperto di un drappo nero. Quegli, che, per quanto, si poteva conoscere, aveva maggiore autorità, si levò da sedere, e stese la mano verso Rogiero in atto di favellare; ma si adoperò invano a profferire parola, chè un subito tremito gl’invase la persona, e ricadde su la sedia dalla quale si era levato. Allora il secondo, quasi volesse prevalersi del suo turbamento, di subito cominciò:

      «Le molte cautele adoperate nella vostra venuta, o Rogiero, devono servire meno a dimostrarvi la nostra diffidanza per voi, che l’altezza del pericolo in cui noi tutti adesso versiamo. Non vi prenda poi nessuna maraviglia di questo mio ragionamento; fra poco vi apparirà chiaro di per sè stesso. Intanto persuadetevi bene di ciò, che dove il fatto, il quale siamo per isvelarvi, fosse manifesto a chi ha il potere della spada, le nostre teste certamente cadrebbero, ma la vostra non andrebbe salva. Nè ciò diciamo per atterrirvi: se voi foste stato capace di passioni codarde, non vi avremmo chiamato a intendere un segreto che nessuno ci costringe a farvi sapere. È lungo tempo che noi vi osserviamo. I misteri più riposti del vostro cuore sono stati da noi conosciuti. Noi sappiamo tutto.... nè alcuna cosa ci occorse di scorgere in voi, che magnanima e generosa non fosse. Vero è però che noi avremmo desiderato tenervi all’oscuro di tutto, finchè, cessato ogni pericolo, aveste potuto raccogliere lietissimo frutto. E questo non già per poca stima, bensì pel grande amore che abbiamo per voi. Ma ora, siccome osserviamo tutto giorno avvenire, la prudenza ordisce e la fortuna tesse, secondo l’antico proverbio: non piacque ai cieli disporre quello che l’uomo aveva proposto. La morte vicina, ed ahimè! troppo certa, di personaggio principalissimo, impegnato in questo negozio, rende vano ogni nostro disegno, e ci costringe a quello che aborrivamo fare.»

      «Non sarebbe forse mio padre questo moribondo?» domandò tutto agitato Rogiero.

      «Calmatevi.... i vostri casi domandano un cuore che senta, una mano che operi, un volto che dissimuli. Ditemi, conoscete voi le vicende della casa di Svevia?»

      «La casa di Svevia! La storia di questa famiglia mi riuscì sempre sopra le altre piacevole e grata; ma quantunque non siasi accumulato sul mio capo un molto avvolgersi di anni, pure non vive casa in Italia di cui non conosca l’origine e la storia....»

      «Voi dunque rammenterete, Rogiero, che numerosi furono un giorno i figli dello imperatore Federigo II, e rammenterete pure suo primogenito essere stato Enrico, eletto Re di Lamagna, vivente il padre, ora volgarmente conosciuto col nome di Enrico lo sciancato, però che la malignità degli uomini non sia soddisfatta della sventura degli oppressi, ma li desideri ancora o ridicoli, o infami. Questo infelice principe, di non troppo fermo volere fornito, e della nostra religione amatore caldissimo, concitato dalle istanze di Gregorio IX, e da quelle dei molti nemici di suo padre, stimò fare cosa grata all’Eterno, sottraendo l’Impero di Lamagna al dominio di un respinto dalla comunione dei fedeli, qual era Federigo II. Ahi! che, guasto da malvagi consigli, non conobbe aborrire Dio le guerre parricide, e la sua maladizione abitare nella casa dell’empio, che osò nella scelleraggine del cuore sollevare la mano contro l’autore dei suoi giorni. Appena conobbe Federigo l’amara novella, abbandonata la Italia, valica celerissimo l’Adriatico e perviene a Vormazia. La gente stava adesso spaventata a vedere chi primo dei due, il padre o il figlio, avrebbe osato trarre la spada. L’eterna pietà non consentiva, che anco questo vituperio si registrasse nella voluminosa storia degli umani misfatti. A Dio non piacque indurare il cuore del figlio: – pallido, sbigottito, meno pauroso della pena che sconfortato dal rimorso, co’ piè nudi, la testa rasa, vestito di sacco, col capestro al collo, tenendo nelle mani la croce, venne a Vormazia; traversò, non curante gli scherni, la folla della gente che aveva atterrita con la sua colpa, e disperatamente piangendo si gettò a misericordia ai piedi del suo genitore, e lui scongiurò, non a risparmiargli il castigo, chè troppo sentiva averlo meritato la sua scelleranza, ma sì a volerlo benedire, e avanti la sua morte richiamare col dolce nome di figlio. Invano l’orgoglio offeso procurava sdegnarsi, invano la tradita autorità paterna mantenersi severa; le lagrime sgorgavano dagli occhi di Federigo, ed il suo cuore sentiva tutta la verità di quella sentenza, che la gioia è figlia del dolore. Scendeva dal trono, al collo del figlio le braccia amorosamente gettava, e lui per gli occhi, per la fronte, e su la bocca baciando, col nome di suo figlio diletto a chiamare ritornava. Oh! vera pace sarebbe stata quella; e perdono durevole. Ma tra le bestie feroci, che la natura ha formato, vivono, o Rogiero, e sventuratamente troppi, tali uomini, ai quali l’aspetto del cielo sereno par gemito; che si nudrono di veleno e di fiele, e renunzierebbero volentieri agli agi, alla vita, e a Dio stesso, per deliziarsi nello spettacolo di un uomo che sospira dal profondo della miseria, e sorridere a cotesti singulti: e mentre furono concesse così strette facoltà per giovare più di quella che non si vorrebbe abbiamo potenza per nuocere. Visse, e vive, o Rogiero, quel figlio del peccato, che suscitando ad ogni momento sospetti nel cuore di Federigo, ed ogni più incolpabile azione di Enrico volgendo in delitto, di mille insidie, e d’infiniti delatori circondandolo, ora con la calunnia, ora con la compassione… Ma che mi trattengo io più a svolgere ad uno ad uno tutti gli accorgimenti della infamia? Essi sono più di quelli che si possono numerare, e che l’onestà può intendere. La sua perfidia fu insomma tanto avventurosa, che Federigo, fieramente infellonito contro il suo sangue, quel male arrivato figliuolo decaduto dal trono di Lamagna chiarisse, e a lui stesso lo consegnasse, onde in qualche carcere della Puglia col pane del dolore e con l’acqua dell’angoscia gli facesse consumare la rimanente sua vita. Nè stette molto che fu annunziata a Federigo la morte di Enrico, il quale riaprendo il cuore alla pietà paterna sentì tanto amaro cordoglio del suo soverchio rigore, che chiusosi in una stanza si dispose a lasciarsi morire di fame; se non che i suoi più fedeli cortigiani a gran pena, favellandogli attraverso la porta, poterono indurlo a por giù quel fiero proposito, e a ristorarsi di cibo. Il rammarico di Federigo non era tale però da rimanersi celato: una epistola imperiale dettata dall’illustre Segretario Piero delle Vigne, e spedita al clero siciliano diceva: Per quanto grande possa essere la colpa dei figli, non diminuisce in nulla l’amarezza che la natura fa sentire ai genitori nel punto della loro morte; e però ordinava, che di magnifiche esequie si onorasse, stimando così compensare con la vanità della pompa un’anima che aveva condannata a inaridirsi nell’onta. Ma Enrico viveva: Federigo e il suo feroce consigliere erano stati delusi…»

      «Viv’egli Enrico lo Sciancato?» gridò Rogiero, che ascoltando attentamente questo racconto non potè reprimere un moto di meraviglia.

      «Troppo duro sarebbe, o figliuol mio, lo stato nostro quaggiù, se la pietà profonda che ne regge non ci fosse stata cortese di alcuno di quegli spiriti compassionevoli

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