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e col capo rovesciato, il cappello ammaccato dai continui urtoni, i piedi pestati, la camicia in sudore, tangheggiava come una barca in mezzo alla tempesta. Con belle maniere, dicendo: «Di grazia!… La prego!… Mi scusi!…» arrivò finalmente a tiro della prima tabella, dove leggevasi:

      SOTTO MULIEBRI SPOGLIE

      CUORE GAGLIARDO PIETOSO

      ANIMO ELETTO MUNIFICO

      SPIRITO SVEGLIATO FECONDO

      ONNINAMENTE DEGNA

      DELLA MAGNANIMA STIRPE

      CHE LA FE’ SUA

      «Onninamente?....» disse il barone Carcaretta che si trovava a fianco di don Cono. «Che cosa significa?»

      «Importa interamente, o vogliam dire del tutto… Onninamente degna della stirpe… Come le piace questo concetto?…»

      «Eh, va bene; ma non capisco perché si divertano a pescar le parole difficili!»

      «Veda…» spiegò allora don Cono, insinuante: «lo stile epigrafico tiene al sommo grado del nobile e del sostenuto… Io non potevo adoprare…»

      «Ah, l’avete scritta voi?»

      «Sissignore… ma non solo, veramente: di unita col cavaliere don Eugenio… Io ho curato sovra tutto la forma… Bramerei vedere le altre: temo non abbian preso un qualche abbaglio, in copiando…»

      Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»

      Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!

      «È vero che non sapeva leggere né scrivere?»

      «Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!»

      Frattanto don Cono avvicinavasi, a passo di formica, alla seconda iscrizione:

      ORBATA

      DEL TUO FIDO CONSORTE

      NEL MORTALE VIAGGIO

      VECE FACESTI

      AL TUOI FIGLI

      DEL PADRE LORO.

      Prima ancora di scorgere i caratteri, don Cono che la sapeva a memoria, recitò l’epigrafe al barone, fermandosi un poco a ciascuna parola, più a lungo ad ogni capoverso, gestendo con la mano come se spruzzasse acqua benedetta, per sottolineare i passaggi salienti:

      «Ignoro se approvate questo concetto: orbata… vece facesti…»

      Ma nuove ondate della folla lo divisero la seconda volta dal compagno. Veniva ora dalla terrazza e dalle scalinate un vasto sussurro, perché i rintocchi del mortorio annunziavano finalmente la partenza del corteo dal palazzo.

      Intorno alla casa Francalanza c’era sempre una fiera, per le tante carrozze aspettanti, pel tanto popolo fremente d’impazienza. Dal portone socchiuso vedevasi un’altra folla ragunata nei due cortili, uno sciame di servi con le livree nere che andavano e venivano, il maestro di casa senza cappello che s’affannava a dar ordini, la carrozza di gala a quattro cavalli che sarebbe servita da carro funebre. Quando finalmente le due pesanti imposte girarono sui cardini, tutte le teste si voltarono, tutte le persone s’alzarono sulle punte dei piedi. Veniva innanzi la fila dei frati Cappuccini con la croce, poi la carrozza funebre, dentro alla quale si vedeva il feretro di velluto rosso, fiancheggiata da tutta la servitù con le torce in mano; poi l’Ospizio Uzeda dei vecchi indigenti, tutti a testa nuda; poi le ragazze dell’Orfanotrofio coi veli azzurri pendenti fino a terra; poi tutte le carrozze di famiglia: altri due tiri a quattro, cinque tiri a due, e poi ancora un altro gruppo di gente: una quarantina d’uomini, la più parte barbuti, con le giubbe di velluto nero, anch’essi coi ceri in mano.

      «Chi sono?… Di dove spuntano?…»

      Erano i zolfai delle miniere dell’Oleastro chiamati apposta da Caltanissetta per l’accompagnamento della padrona: quest’ultimo accessorio finiva di sbalordire tutti quanti: ancora non s’era vista una cosa simile!… Ma gli equipaggi che s’avanzavano da ogni parte per mettersi in fila sbaragliavano la calca: tiri a quattro che venivano a prendere i primi posti, tiri a due che rinculavano scalpitando tra un fitto schioccar di fruste; e i curiosi, a rischio di lasciarsi pestare sotto i piedi delle bestie, li venivano riconoscendo dagli stemmi degli sportelli e anche dai cocchieri:

      «Il duca Radalì… il principe di Roccasciano… il barone Grazzeri… i Cùrcuma… i Costante… non manca nessuno!…»

      Di repente tutti si volsero a un lontano vocìo:

      «Che è?… Che cos’è stato?… La carrozza di Trigona!… Il cocchiere non vuole andare in coda, gli altri non cedono il posto… Ha ragione!… Questi sono soprusi!…»

      Il cocchiere del marchese Trigona, appunto, quantunque guidasse un trespolo tirato da due ronzinanti, non voleva mettersi in coda dove c’erano le carrozze dei non nobili più belle della sua. E Baldassarre, tutto in sudore per la fatica sostenuta nell’ordinare il corteo, nel far rispettare le precedenze, s’avanzava per dar ragione al cocchiere, aprendosi a stento il varco tra la folla, allungando ceffoni ai monelli che gli si mettevano fra i piedi, ingiungendo: «Largo!… largo!…» mentre una buona metà dell’accompagnamento s’era avviata.

      Il mortorio sonato da tutte le chiese della città chiamava gente da ogni parte sul suo passaggio; ma specialmente il campanone della cattedrale sospingeva a frotte i curiosi. Sonava a morto solo pei nobili e i dottori, e il suo nton nton grave e solenne costava quattr’onze di moneta; talché la gente, udendo la gran voce di bronzo, diceva: «Se n’è andato qualche pezzo grosso!»

      E ancora buon numero di carrozze, dopo quella di Trigona, aspettavano d’incamminarsi, che già la testa del corteo fermavasi ai Cappuccini.

      Impossibile portare in chiesa la bara dalle scale. Non già che pesasse molto, ché anzi era vuota; ma la ressa, sulle scale, cresceva, nessuno poteva andare né avanti né indietro, solo il cannone avrebbe potuto far luogo. Bisognò girare la situazione, aprire un varco fra la turma che gremiva la salita del Santo Carcere e di San Domenico e portare il feretro dal convento e dalla sacrestia: trascorse quasi un’ora prima che fosse posto sul catafalco.

      I sonatori avevano già preso posto sul palco e sfoderato i loro strumenti, i frati accendevano con le canne lunghe i ceri dell’altar maggiore. E i curiosi stipati nella chiesa, continuando a parlar della morta, si rivolgevano insistentemente una domanda e si proponevano una quistione: «Chi sarà l’erede?..» Nobili e plebei, ricchi e poveri, tutti volevano sapere che direbbe il testamento, come se la morta avesse potuto lasciar qualcosa a tutti i suoi concittadini. Aspettavano, al palazzo, l’arrivo del contino da Firenze e del duca da Palermo per leggere le ultime volontà della principessa; e le opinioni, nel pubblico, erano diametralmente opposte: alcuni sostenevano che tutto sarebbe andato al contino; ma, quantunque la defunta odiasse il primogenito, era proprio possibile che lo diseredasse? «Nossignore: tutto andrà al primogenito: è vero che non lo poteva soffrire, ma è il capo della casa, l’erede del principato!…»

      Un nuovo pigia pigia troncò di botto ogni discorso, infittì la folla in fondo alla chiesa: entravano le orfanelle del Sacro Cuore con le vesti verdi e gli scialletti bianchi; Baldassarre, tutto vestito di nero, le dirigeva verso l’altar maggiore, ingiungendo:

      «Largo, largo, signori miei!…»

      Un bambino, mezzo soffocato tra la calca, si

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