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a portarle il suo avere in tanti bei pezzi di colonnati lucenti e sonanti. Patrocinatore, notaio e sensale erano i suoi amici. Fra la gente che frequentava il palazzo Francalanza ella sceglieva, per tirarseli a fianco, i più destri, i più prudenti, quelli che avevano come lei l’intelligenza e la passione degli affari, dai quali poteva sperare informazioni e suggerimenti. E il principe di Roccasciano, gran signore da quanto gli Uzeda, ma con pochi quattrini che s’era proposto di moltiplicare e che moltiplicava infatti, pazientemente, prudentemente, senza la spilorceria e le durezze di lei, era il suo consigliere preferito. Nel ‘49, quando meno l’aspettava, le si presentò l’occasione di comprar la casa. Ella aveva dato certe mille onze al cavaliere Calasaro, il cui figliuolo, complicato nella rivoluzione, era stato costretto a prendere le vie dell’esilio. Il padre, spogliatosi ed esaurito tutto il suo credito per non fargli mancare nulla, non poté, alla scadenza, soddisfare donna Ferdinanda. Costei, fiutando il vento, volle esser pagata subito subito, e minacciò la espropriazione e lanciò la prima citazione. Il debitore venne a gettarlesi ai piedi, con le mani in testa, perché gli evitasse l’ultima rovina, e le offrì, tra le sue proprietà, quella che più le piaceva. Donna Ferdinanda le buttò per terra, piene com’erano d’iscrizioni, capaci di attirarle addosso un diluvio di carta bollata, e poiché l’altro insisteva, e le offriva la casa netta d’ipoteche, la zitellona torse il grifo, dicendo: «Se ne può parlare.» Ma ella pretendeva di averla per le sue mille e cent’onze, capitale, interesse e spese, senza metter fuori un carlino di più, mentre il proprietario la stimava duemila onze, per lo meno, e pretendeva il resto. La cosa andò a monte; donna Ferdinanda spinse avanti la procedura. L’altro, con l’acqua alla gola, spremuto dal figliuolo che da Torino chiedeva sempre quattrini, vessato dal governo per motivo del giovane esiliato, chinò finalmente il capo. «Almeno faccia lei le spese dell’atto,» le mandò a dire; ma donna Ferdinanda: «Mille e cent’onze: ho una parola sola!» Così ella ebbe la casa. Era piccola, naturalmente, per quel prezzo: due botteghe fiancheggianti il portone, e un piano solo, sopra, con un balcone grande e due piccoli, nella facciata; ma aveva un valore inestimabile agli occhi di donna Ferdinanda; era posta ai Crociferi, che era il vecchio quartiere della nobiltà cittadina, ed essa stessa era una casa nobile, appartenendo da tempo ai Calasaro, signori della «mastra antica».

      Oltre quella dei quattrini, la zitellona aveva infatti la passione della vanità nobiliare. Tutti gli Uzeda erano gloriosi della magnifica origine della loro schiatta; donna Ferdinanda ne era ammalata. Quando ella parlava di «don Ramon de Uzeda y de Zuellos, que fue señor de Esterel», e venne di Spagna col Re Pietro d’Aragona a «fondarsi» in Sicilia; quando enumerava tutti i suoi antenati e discendenti «promossi ai sommi carichi del Regno»: don Jaime i «che servì al Re don Ferdinando, figlio dell’imperator don Alfonso, contra ai mori di Cordova nel campo di Calatrava»; Gagliardetto, «caballero de mucha qualitad»; Attardo, «cavaliero spiritoso, ed armigero»; il grande Consalvo «Vicario della Reina Bianca»; il grandissimo Lopez Ximenes «Viceré dell’invitto Carlo v»; allora i suoi occhietti lucevano più dei carlini di nuovo conio, le sue guance magre e scialbe s’accendevano. Indifferente a tutto fuorché ai suoi quattrini, incapace di commoversi per qualunque avvenimento o lieto o triste, ella s’appassionava unicamente alle memorie dei fasti degli antenati. V’era in casa, ai tempi di suo nonno, una bella libreria; ma, quando il principe Giacomo xiii cominciò a navigare in cattive acque, fu venduta prima di tutto; ella salvò una copia del famoso Mugnòs, Teatro genologico di Sicilia, dove il capitolo «della famiglia de Vzeda» era il più lungo, occupando non meno di trenta grandi pagine. E quelle pagine secche e ingiallite, esalanti il tanfo delle vecchie carte, stampate con caratteri sgraziati ed oscuri, con ortografia fantastica; quella enfatica e bolsa prosa siculo-spagnola secentesca era la sua lettura prediletta, l’unico pascolo della sua immaginazione; il suo romanzo, il vangelo che le serviva a riconoscere gli eletti tra la turba, i veri nobili tra la plebe degli ignobili e la «gramigna» dei nobili falsi. «Chiaramente per tutti gli Hifpani genologifti fi fcorge, coi suoi felici fucceffi e con le occasioni debbite, qvale vna delle più antiche e fublimi famiglie delli regni di Valenza e d’Aragona la famiglia Vzeda, e per tvtto è uolgato effer ella fiffatamente cognominata dal nome, di vna fva terra detta la baronia di Vzeda, qvale alcanzò da qvei Re, in ricompenfo dei fvoi feruigi et indi coi Trionfi della militia nel Svpremo Cielo delle glorie militari peruenne.» Questo stile era d’una suprema eleganza, d’una straordinaria magnificenza per donna Ferdinanda, la quale leggeva letteralmente uolgato, peruenne e faceva già troppo, poiché essendo una «porcheria» per le donne della sua casta, al principio del secolo, sapere di lettere, ella aveva appreso a legger da sé, pei bisogni delle sue speculazioni.

      Ora, con questo infatuamento della zitellona per la propria eccelsa origine e per l’istituzione della nobiltà in generale, la principessa pensò di dar per moglie a Raimondo, chi? Una Palmi di Milazzo, la figliuola d’un barone «da dieci scudi» del quale il Mugnòs non faceva e non poteva fare la più lontana menzione! Gloriavasi, questo «barone» Palmi, di certi privilegi di centocinquant’anni addietro; ma che erano centocinquant’anni paragonati ai secoli di nobiltà degli Uzeda? Senza contare che di questi privilegi non parlava neppure il marchese di Villabianca, autore fiorito nientemeno che un secolo dopo il Mugnòs!… La principessa, a cui la nobiltà stava a cuore, se non quanto a donna Ferdinanda, certo moltissimo, aveva giudicato invece sufficienti e fors’anche soverchi quei centocinquant’anni dei Palmi, giusto perché, volendo che la moglie del suo Raimondo fosse sottomessa dinanzi al beniamino come una schiava dinanzi al padrone, e che egli potesse trattarla d’alto in basso e farne quel che gli piaceva, aveva perfino pensato un momento di sceglier per lui l’umile figliuola di qualche ricco fattore… Il dissidio fu quindi violento. Già donna Ferdinanda, acquistato lo stabile dei Calasaro, era andata via dal palazzo Francalanza e aveva messo casa, continuando a squartar lo zero ma pagandosi il lusso della carrozza. I legni erano due vecchi trespoli comprati per pochi ducati ma decorati dello stemma di casa Uzeda; i cavalli, due magre bestie a cui ella dava in pasto un po’ di paglia del Carrubo, un pugno di crusca e la verdura marcita. Il cocchiere, oltre al servizio della stalla e della scuderia, faceva da cuoco e da staffiere. I sarcasmi della principessa eran divenuti, per tutto questo, naturalmente più aspri; e adesso la zitellona teneva fronte alla cognata. Ricca com’era di quattrini e come si credeva di senno, donna Ferdinanda pretendeva che le facessero la corte e la tenessero da conto; mentre prima, stando insieme coi parenti, era rimasta indifferente ai loro affari, voleva ora, lontana, ficcare anche lei il naso in tutte le quistioni di famiglia. Invece, la principessa non tollerava né protezione né imposizioni; quindi liti ogni giorno. Da un’altra parte don Blasco, esasperato per la fortuna della sorella, perdette il lume degli occhi vedendo costei fargli la concorrenza nella sua parte di critico minuto e di giudice infallibile; la zitellona, viceversa, gli disse il fatto suo per la vita scandalosa che conduceva; e un giorno, a proposito d’una certa balia da prendere per il principino, siccome a donna Ferdinanda il latte di costei pareva sospetto, mentre don Blasco lo dichiarava di prima qualità – le male lingue dicevano che aveva ragione di conoscerlo – fratello e sorella vennero quasi alle mani: chetàti a fatica dal nipote Giacomo, non si parlarono mai più. Il più strano era che, non parlandosi mai, evitandosi come la peste, essi soli, in quella casa, vedevano le cose a un modo e in tutto esprimevano eguali opinioni. Come don Blasco aveva gettato fuoco e fiamme contro il matrimonio di Raimondo, così donna Ferdinanda era divenuta una vipera. Non solamente quella bestia della cognata proteggeva il terzogenito in odio all’erede del titolo, non solamente si metteva sotto i piedi la «legge» che voleva la continuazione del solo ramo diretto; ma gli dava in moglie, chi, Signore Iddio? Una Palmi di Milazzo!… Palmi? Donna Ferdinanda non la chiamò mai con questo nome; ma ora Palma, ora Palmo, e le diede come arma parlante ora la mezza canna, che conta appunto quattro palmi, con la quale i rivenduglioli misurano la cotonina; ora due palme di piedi, che tra quella gente dovevano esser villosi, da quei contadini che erano. Le due cognate, a furia di sarcasmi e di liti, per poco non si strapparono i capelli; come don Blasco, la zitellona non mise più piede in casa Francalanza; ma, come il fratello, non soffrendo di starne a lungo lontana, ci tornò alla prima occasione.

      E solamente gli altri due cognati, il duca Gaspare e il cavaliere don Eugenio, non avevano dato tanti fastidi a donna Teresa.

      Il Cavaliere don Eugenio, al tempo di quelle lotte, non era in Sicilia. Destinato sulle prime ad entrare anche lui ai Benedettini come il fratello don Blasco, s’era salvato adducendo la propria inclinazione al mestiere

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