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Non posso venire…»

      «Eh! che diavolo! Ora che ho promesso di presentarti! Che figura mi fai fare?»

      «Ma capisci…»

      «Capisco che sei di una timidità ridicola.»

      Così la paura di un ridicolo scacciò l’altra, e mi lasciai condurre. Alle porte del teatro sentii rinascere più vive che mai le ultime esitazioni, e le misi fuori risolutamente. Egli le respinse senza ammettere replica e mi prese pel braccio. Infilammo alcuni corridoi poco illuminati, e ci trovammo quasi improvvisamente in mezzo ad un caos di ordegni, di assi, di tele dipinte, di scale; tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere faceva la corte ad una figurante lercia, seduta a cavalcioni su di una seggiola zoppa. – Era il rovescio di quel paradiso di tele dipinte e di fiori di carta. Di fuori risuonavano applausi fragorosi che soverchiavano la musica da ballo. Tutt’a un tratto, dalle quinte, entrò correndo un leggiadro folletto, tutto involto in una nube di veli, e rialzando la gonnellina appoggiò il piede su di uno sgabello per allacciare meglio uno degli scarpini.

      «È lei,» mi disse Giorgio; «vieni.»

      Essa levò il capo, ancora tutta rossa e anelante. Ci vide e ci sorrise. – ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata. I capelli le cadevano sul petto senz’arte; alcune stille di sudore rigavano il suo belletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne alteravano la delicata morbidezza; le scapule si ravvicinavano sgarbatamente, fin la suola del suo scarpino era insudiciata dalla polvere del palcoscenico. Ti parlo da pittore; ma anche da pittore ne avevo ricevuto la prima impressione. Era la silfide dietro la scena, nel suo momento di prosa, in cui non ha bisogno di essere bella, e non si cura di esserlo. Ora è impossibile esprimerti l’effetto che tutto ciò doveva fare sulla squisita e mobilissima sensibilità mia. La farfalla tornava bruco, ed io ne risentivo un dispetto ed una amarezza indicibili.

      «Ah, il signore!…» diss’ella sorridendo fra un nodo l’altro. «Le sono molto riconoscente del suo articolo.»

      E siccome io non rispondevo, il mio amico stimò conveniente dire qualcosa per conto mio. Ella si rizzò, tutta rossa, ancora anelante, ed aggiustando i suoi capelli e le pieghe del suo gonnellino, mi affissava coi suoi grand’occhi – erano tutt’altri occhi che quelli lampeggianti ebbrezze e seduzioni mentite che avevano sconvolto la mia ragione; ma ci era un’aria d’insistente e quasi ingenua curiosità ch’era stranissima.

      «Rientro in iscena,» disse vivamente e stendendoci le due mani nello stesso tempo. «Mi rincresce non potermi fermare più a lungo. Ma spero che il signore vorrà farmi il piacere di venirmi a trovare…»

      Ci sorrise e con la vivacità piena di grazia spinse all’indietro colle due mani quel fiocco di velo che formava il suo gonnellino; riprese come una maschera il suo sorriso e disparve.

      Rimanevo tristamente là dov’erano svanite le mie illusioni.

      «Che te ne sembra?» domandò Giorgio.

      «In fede mia… non valeva proprio la pena di venir qui a sciupare i bei frutti delle mie tre lire!»

      «Che bel matto! Avresti voluto essere accolto con una piroetta? E credi forse che la prima ballerina della Pergola non debba far altro che sorrisi convenzionali e gesti aggraziati? Puoi essere ben contento, giacché ti ha invitato ad andarla a trovare…»

      «Oh, grazie!»

      «Saresti capace di non andarci!»

      «Tanto capace che non ci andrò.»

      «Eh, via! cotesto si chiama viver nelle nuvole!…»

      «Lasciami pure le mie nuvole così belle, perché tutto il resto è così brutto!»

      «Amen!» rispose Giorgio in tono derisorio. «Non te le invidierò, di certo!»

      «Anzi,» avevo detto a Giorgio un altro giorno, «voglio tornare a vederla, cotesta sirena che abbaglia la ragione collo scintillare delle sue pagliuzze dorate, e che irrita i sensi colle sue vesti vaporose, che mette la febbre nel sangue, e fa scrivere appendici ridicole. Voglio ridere di me anch’io, giacché ne hanno riso gli altri, e lei per la prima.»

      «Si direbbe che nella tua ironia c’è molta amarezza!»

      «No! c’è del dispetto!… C’è il dispetto di aver visto il mio cuore ginocchioni davanti a cotesta dea che si allaccia le scarpe come l’ultima donnicciuola…»

      Giorgio quest’altra volta era accanto a me, in teatro, e guardava cogli occhi spalancati quella donna circondata dagli stessi splendori, e irradiante le medesime ebbrezze. E a rispondere colla sua ammirazione al mio sarcasmo, esclamava quasi fra sé: «Perdio!… com’è bella!…»

      «Oh! Sì! Sì! Ed è qualcosa che irrita, che fa dispetto, questa bellezza alla cui presenza il cuore si contorce di spasimo e la ragione diventa vigliacca, cotesta profanazione del bello che, sorridente e non curante, calpesta colle sue scarpine di raso tutto quello che abbiamo creduto puro e santo – la donna, l’amore, l’ideale. – Vedi, essa mi ha messo la febbre nel sangue, ed io mi sento come schiaffeggiato.»

      «Mio caro» esclamò Giorgio uscendo fuori dai gangheri «qualche volta io credo che tutte le nostre creazioni rachitiche non valgano un capello della schietta bellezza fisica.»

      «Ah! sì, per esempio cotesta vale tre lire.»

      «Oh!»

      «Sì, ella vende per tre lire le sue spalle, il suo seno, le menzogne dei suoi sguardi, i baci del suo sorriso, il suo pudore, per tre lire, a me, a te, a quel grasso signore con l’occhio imbambolato dal vino, a quel giovane che le getta in faccia i suoi sozzi desideri con esclamazioni da trivio, a quell’elegante annoiato che fissa su lei il suo occhialino distratto dal fondo del suo palchetto, a quella signora che non si fa pagare la seminudità, ma che la guarda con disprezzo. Tutto ciò non vale che tre lire; ella ebbra, procace, in mezzo a gente che ha la testa a segno, e qualche volta il sorriso o la curiosità insultante!… Nelle medesime condizioni la cortigiana ha su di lei il vantaggio di aver di faccia un uomo abbietto e ridicolo del pari.»

      «Essa ha udito tutto quello che hai detto di lei!» rispose ridendo Giorgio che da qualche istante non mi dava più retta.

      Io trasalii, spiegamene tu il motivo, se puoi.

      «Davvero?» esclamai come se fosse stato possibile.

      «Sì. Non vedi come ci guarda?»

      Allora mi accorsi che la mia sorpresa e la mia credulità erano ridicole, e giacché mi sentivo umiliato, senza saperne il perché, ammutolii.

      Giorgio era partito prima di me. Quando fui per uscire mi si avvicinò un inserviente del teatro e mi porse un biglietto.

      «A me?» esclamai sorpreso.

      «Sissignore, mi fu ben indicato.»

      «Da chi?»

      «Dalla signora Eva.»

      «Eh?!…»

      «Che l’aspetti nel vestibolo. Verrà fra mezz’ora.»

      La mia sorpresa era tale che non potei metter fuori una sola delle interrogazioni che mi si affollavano in mente.

      Apersi il biglietto e lessi:

      « Non siete venuto: perché? Se volete accompagnarmi dopo il ballo, aspettatemi nel vestibolo. «

      Rimanevo come sbalordito dalla sorpresa, leggendo e rileggendo quelle due o tre righe, sentendomi serpeggiare fiamme ignote per le vene, provando improvvisi ed inesplicabili turbamenti. Gli spettatori, gli artisti, gli impiegati del teatro erano tutti partiti gli uni dopo gli altri; i lumi erano stati spenti; non rimaneva che qualche fiammella di gas per i corridoi, e il lampione di un fiacre che si riverberava sull’invetriata del vestibolo. Avrai osservato come in certi momenti eccezionali un oggetto insignificante assorbisca tutta la nostra attenzione e s’inchiodi nel nostro cervello. – Quel lume che brillava al di fuori esercitava una specie di fascino sui miei occhi, e sembrava mi penetrasse sino al

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