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e con la penna nella sinistra accennò di scrivere con grande rapidità.

      Alfonso trovò che Alchieri aveva diminuito i suoi sospesi e sedendo al suo posto incuorato dalla gentile accoglienza di Cellani si propose di definirli e di non lasciare che altri se ne accumulassero. In soli quindici giorni, Alchieri, che usciva da una caserma, aveva introdotto nel lavoro un sistema preferibile di molto a quello di Alfonso e ad Alfonso fu facile, almeno per il primo tempo, di conservarlo. La maggiore tranquillità nel suo organismo rinforzato dall’aria aperta lo rendeva capace di un’attenzione maggiore per quanto sempre forzata.

      Anche essendo in ufficio continuava la sua cura d’aria aperta come egli la chiamava. Faceva ogni mattina una passeggiata di più ore e solitamente verso l’altipiano perché gli occorreva la fatica della salita. Col suo passo misurato, l’aveva riconquistato, percorreva tutta la lunga strada d’Opicina spaziosa e comoda, la quale, lunghissima, con debole salita, in un solo giro, enorme semicerchio intorno alla città, lo portava sino all’altipiano. Alfonso riposava ove da questa via si staccava un viottolo verso Longera.

      Di là vedeva il vasto altipiano muto e deserto con le sue innumerevoli piccole colline di sassi, di tutte le forme, appuntite, rotonde, appiattate, mucchi di sassi piovuti dall’alto e disposti dal caso che aveva fabbricato anche lo stesso monte Re all’orizzonte, con la sua larga schiena e la dolce salita da una parte, dall’altra la caduta perpendicolare quasi.

      Alfonso non varcava mai quel punto e ciò non soltanto perché il tempo gli mancava. Di là vedeva anche la città con le sue case bianche, il mare abitualmente tanto calmo di mattina come se le poche ore di giorno non fossero ancora bastate a destarlo. Il verde dei promontori a sinistra della città ed il colore del mare contrastavano singolarmente con i sassi grigi dell’altipiano.

      Scendeva in città quieto come in altri tempi non lo era stato che uscendo dalla biblioteca. Passava senza entrarvi accanto a Longera, un villaggio oblungo, già quasi a valle, il quale si stringeva al monte come se vi cercasse riparo, le sue casette ammonticchiate, quando facilmente avrebbe trovato aria e spazio invadendo i campi circostanti. Nelle strade del villaggio a quell’ora cominciava il formicolìo e da lontano si vedevano accennate tutte le esteriorità dell’attività e dei destini umani in quelle poche figure che si movevano per le stradicciuole del piccolo luogo. La rapida corsa di un giovinetto che Alfonso poté seguire da un lato all’altro del villaggio, l’uscita dalla sua casa di un contadino in cappello e che prima di muoversi, con tutta calma esaminava il cielo forse per sapere se dovesse prendere seco anche l’ombrello; in una stradicciuola più remota un uomo e una donna che cianciavano insieme forse già a quell’ora d’amore; in un cortile si batteva del grano e là c’era tanto movimento che da lontano poteva prendersi per allegria. Poi Alfonso passava per il ridente San Giovanni con le sue case sparse, la sua chiesuola bianca, di settimana vuota e abbandonata, di domenica tanto piena che tutti i devoti non ci capivano e le contadinelle vestite di lana nera marginata di larghe fascie di seta azzurra o rossa ingombravano il piccolo piazzale e facevano le loro devozioni all’aperto.

      Il nuovo metodo di vita di Alfonso era dannoso ai suoi studi perché il primo risultato del suo spesso aggirarsi all’aria aperta fu il bisogno di quest’aria e l’incapacità di rimanere a lungo in quella rinserrata. Talvolta, uscito dall’ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz’ora; lo prendeva un’inquietezza invincibile che lo portava all’aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s’immaginava di sentire immediati i benefici effetti.

      Poi se ne andava a casa e ancora a cena aveva talvolta il proposito di passare la notte su qualche libro, ma la stanchezza lo vinceva e dormiva le nove, dieci ore di sonno tranquillo, benefico tanto che non sapeva averne rimorso.

      Eppure fu precisamente allora che la sua ambizione si concretò nel sogno di un successo. Aveva trovata la sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana con la traduzione di un buon lavoro tedesco e nello stesso tempo con un suo lavoro originale. La traduzione rimase puramente allo stato di proposito, ma fece qualche cosa del lavoro originale. Il titolo intanto: L’idea morale nel mondo moderno e la prefazione in cui dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era uno scopo teorico senza veruna intenzione di utilità pratica e questa gli sembrava già una novità per la filosofia italiana. Voleva, questo alla breve il contenuto del libro e fino ad allora Alfonso stesso non ne sapeva di più, voleva provare che l’idea morale nel mondo non ha altro fondamento che da un’imposizione necessaria per il vantaggio della collettività. L’idea non era molto originale ma il modo di svolgerla poteva divenirlo se esclusivamente inteso alla ricerca della verità senz’alcuna preoccupazione delle possibili conseguenze per la vita pratica: coraggio e sincerità non gli mancavano. Scrivendo aveva tutto quel coraggio che nella vita gli mancava e nei suoi studî fatti al solo scopo di imparare non poteva aver perduto la sincerità. Gli elementi che costituiscono il successo letterario non conosceva e poco curava. Voleva lavorare, lavorare bene e il successo sarebbe venuto da sé.

      Lavorava bene ma lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. Così, in sogno, vedeva aumentati i pregi di quest’opera che perché non ancora fatta non poteva essere stata danneggiata dalle resistenze della penna. Dopo qualche mese, vedendo che il risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione ove prometteva di fare e di provare ma ove nulla era fatto o provato, venne preso da un grande scoramento. Quelle pagine rappresentavano il lavoro di mesi perché altro in quel frattempo egli non aveva fatto. Non una sola volta aveva stancato il suo cervello con lo studio e quelle pagine erano il solo progresso che egli avesse fatto verso la sua meta. Era tanto poco che equivaleva ad una rinunzia tacita ad ogni ambizione.

      Pigliava anche più legittimamente l’aspetto di rinunzia per il fatto incontestabile che alla banca egli si trovava meglio e che odiava meno quel lavoro che da bel principio aveva scoperto in antagonismo a quello intellettuale cui voleva dedicarsi. L’aiuto e l’esempio di Alchieri avevano cooperato a renderglielo meno odioso ma anche, riteneva, la cessazione quasi intera dell’attività più intelligente.

      Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all’avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d’impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.

      Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un’ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull’autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.

      Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.

      – Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.

      Uscirono insieme.

      – Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d’osso.

      Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.

      – Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.

      – Letteratura! – confessò Alfonso esitante.

      Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch’era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.

      – E che cosa

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