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alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m’attaccai a lui per arricchire.

      Ero venuto al Tergesteo per consiglio dell’Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili notizie. M’assisi a quel tavolo al quale troneggiava il mio futuro suocero e di là non mi mossi più, sembrandomi di essere arrivato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.

      Egli presto s’accorse della mia ammirazione e vi corrispose con un’amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall’esempio della sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberarmi dall’Olivi e dirigere io stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito. Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all’Olivi ch’egli conosceva.

      Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi annotò di propria mano nel mio libretto tre comandamenti ch’egli riteneva bastassero per far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare gli altri perisce. 2. Non c’è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quando l’affare è stato liquidato.

      Io so questi e tanti altri teoremi a mente, ma a me non giovarono.

      Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto astuto. Una volta anzi sognai d’essere più furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo subito per conquistarmi la sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l’arrestai quando, discutendo di un affare, stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L’avvertii ch’io trovavo ch’egli sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, secondo me, doveva fare in modo di apparire melenso.

      Egli mi derise. La fama di furberia era utilissima. Intanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli portavano delle notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un’esperienza raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l’opportunità di aver insieme alle notizie anche la possibilità di vendere delle merci. Infine – e qui si mise ad urlare perché gli parve d’aver trovato finalmente l’argomento che doveva convincermi – per vendere o per comperare vantaggiosamente, tutti si rivolgevano al più furbo. Dal melenso non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacrificare ogni suo beneficio, ma la sua merce era sempre più cara di quella del furbo, perché egli era stato già truffato al momento dell’acquisto.

      Io ero la persona più importante per lui a quel tavolo. Mi confidò suoi segreti commerciali ch’io mai tradii. La sua fiducia era messa benissimo, tant’è vero che poté ingannarmi due volte, quand’ero già divenuto suo genero. La prima volta la sua accortezza mi costò bensì del denaro, ma fu l’Olivi ad esser l’ingannato e perciò io non mi dolsi troppo. L’Olivi m’aveva mandato da lui per averne accortamente delle notizie e le ebbe. Le ebbe tali che non me la perdonò più e quando aprivo la bocca per dargli un’informazione, mi domandava: «Da chi l’avete avuta? Da vostro suocero?». Per difendermi dovetti difendere Giovanni e finii col sentirmi piuttosto l’imbroglione che l’imbrogliato. Un sentimento gradevolissimo.

      Ma un’altra volta feci proprio io la parte dell’imbecille, ma neppure allora seppi nutrire del rancore per mio suocero. Egli provocava ora la mia invidia ed ora la mia ilarità. Vedevo nella mia disgrazia l’esatta applicazione dei suoi principii ch’egli giammai m’aveva spiegati tanto bene. Trovò anche il modo di riderne con me, mai confessando di avermi ingannato e asserendo di dover ridere dell’aspetto comico della mia disdetta. Una sola volta egli confessò di avermi giocato quel tiro e ciò fu alle nozze di sua figlia Ada (non con me) dopo di aver bevuto dello sciampagna che turbò quel grosso corpo abbeverato di solito da acqua pura.

      Allora egli raccontò il fatto, urlando per vincere l’ilarità che gl’impediva la parola:

      – Capita dunque quel decreto! Abbattuto sto facendo il calcolo di quanto mi costi. In quel momento entra mio genero. Mi dichiara che vuol dedicarsi al commercio. «Ecco una bella occasione», gli dico. Egli si precipita sul documento per firmare temendo che l’Olivi potesse arrivare in tempo per impedirglielo e l’affare è fatto. – Poi mi faceva delle grandi lodi: – Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!

      Era vero! Se avessi visto quel decreto apparso in luogo poco vistoso dei cinque giornali ch’io giornalmente leggo, non sarei caduto in trappola. Avrei dovuto anche subito intendere quel decreto e vederne le conseguenze ciò che non era tanto facile perché con esso si riduceva il tasso di un dazio per cui la merce di cui si trattava veniva deprezzata.

      Il giorno dopo mio suocero smentì le sue confessioni. L’affare in bocca sua riacquistava la fisonomia che aveva avuta prima di quella cena. – Il vino inventa, – diceva egli serenamente e restava acquisito che il decreto in questione era stato pubblicato due giorni dopo la conclusione di quell’affare. Mai egli emise la supposizione che se avessi visto quel decreto avrei potuto fraintenderlo. Io ne fui lusingato, ma non era per gentilezza, ch’egli mi risparmiasse, ma perché pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i proprii interessi. Invece io, quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. È un pensiero tanto importante che non resta altro posto per ricordare la mia merce.

      Una volta però m’avvenne di conquistare la sua ammirazione e proprio per me, come sono e giaccio, ed anzi proprio per le mie qualità peggiori. Possedevamo io e lui da vario tempo delle azioni di una fabbrica di zucchero dalla quale si attendevano miracoli. Invece le azioni ribassavano, tenuemente, ma ogni giorno, e Giovanni, che non intendeva di nuotare contro corrente, si disfece delle sue e mi convinse di vendere le mie. Perfettamente d’accordo, mi proposi di dare quell’ordine di vendita al mio agente e intanto ne presi nota in un libretto che in quel torno di tempo avevo di nuovo istituito. Ma si sa che la tasca non si vede durante il giorno e così per varie sere ebbi la sorpresa di ritrovare nella mia quell’annotazione al momento di coricarmi e troppo tardi perché mi servisse. Una volta gridai dal dispiacere e, per non dover dare troppe spiegazioni a mia moglie le dissi che m’ero morsa la lingua. Un’altra volta, stupito di tanta sbadataggine, mi morsi le mani. «Occhio ai piedi, ora!» disse mia moglie ridendo. Poi non vi furono altri malanni perché vi ero abituato. Guardavo istupidito quel maledetto libretto troppo sottile per farsi percepire durante il giorno con la sua pressione e non ci pensavo più sino alla sera appresso.

      Un giorno un improvviso acquazzone mi costrinse di rifugiarmi al Tergesteo. Colà trovai per caso il mio agente il quale mi raccontò che negli ultimi otto giorni il prezzo di quelle azioni s’era quasi raddoppiato.

      – Ed io ora vendo! – esclamai trionfalmente.

      Corsi da mio suocero il quale già sapeva dell’aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po’ meno di avermi indotto a vendere le mie.

      – Abbi pazienza! – disse ridendo. – È la prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio.

      L’altro affare non era risultato da un suo consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.

      Io mi misi a ridere di gusto.

      – Ma io non ho mica seguito quel consiglio! – Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un’aria d’importanza, volli fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che m’avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.

      Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi in faccia. – Quando si ha una mente come la tua non ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.

      Mi

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