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mia madre in quell’atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt’uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s’arrestò di fronte a me.

      – Fuori! – mi gridò. – Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia!

      – Senti; – le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. – Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene,; per il tuo bene! vattene!

      Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre:

      – No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola!

      Ma quella degna madre la respinse, furibonda:

      – L’hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola!

      Ma non se ne andò s’intende.

      Due giorni dopo, mandata – suppongo – da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma.

      Questa scena merita di essere rappresentata.

      La vedova Pescatore stava quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se nulla fossa. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei.

      – Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!.

      Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano.

      La vedova Pescatore, zitta.

      Finito di abburattare; intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte «Ma sì! – ma certo! – ma come no? – ma sicuramente!» ; poi, come se non bastasse, andò a prendete il mattarello; e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo.

      Non l’avesse mai fatto!– Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:

      – Eccoti! lascia tutto. Via subito!

      E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.

      Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (</I>sit venia verbo</I>) receva di là, tra acutissime strida, mentr’io:

      – Le gambe! le gambe! – gridavo alla vedova Pescatore per terra. – Non mi mostrate le gambe, per carità!

      Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.

      Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l’ero ben meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d’ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l’obbligo di venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui.

      Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo.

      Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m’imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via di lungo.

      – Pomino!

      Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi bassi:

      – Che vuoi?

      – Pomino! – ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella sua mutria. – Dici sul serio?

      Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi.

      Ero ancora com’ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da quando m’ero guardato allo specchio.

      Vedi questi sgraffii? – gli dissi, a un certo punto. – Lei me li ha fatti!

      – Ro… cioè, tua moglie?

      – Sua madre!

      E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui.

      Mi venne allora la tentazione di domandargli perché dunque, se veramente n’era cosi addogliato, non l’aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il volo con la, com’io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia d’innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell’orgasmo in cui mi trovavo; ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se la facesse, di quei giorni.

      – Con nessuno! – sospirò egli allora. – Con nessuno! Mi annojo, mi annojo mortalmente!

      Dall’esasperazione con cui proferì queste parole mi parve d’intendere a un tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco qua: non tanto Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a mancare; Berto non c’era più; con me non poteva più praticare, perché c’era Romilda di mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino?

      – Ammógliati, caro! – gli dissi. – Vedrai come si sta allegri!

      Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi chiusi; alzò una mano:

      – Mai! mai più!

      – Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia, sono a tua disposizione, anche per tutta la notte, se vuoi.

      E gli manifestai il proponimento che avevo fatto, uscendo di casa, e gli esposi anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si commosse, da vero amico, e mi profferse quel po’ di denaro che aveva con sé. Lo ringraziai di cuore, e gli dissi che quell’aiuto non m’avrebbe giovato a nulla: il giorno appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m’abbisognava.

      Aspetta! – esclamò allora Pomino. – Sai che mio padre è ora al Municipio?

      – No. Ma me l’immagino.

      – Assessore

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