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avuto saltuari guadagni come giornalista pubblicista e allori come poeta: allori, perché carmina non dant panem. Restava forte la paura, perdendo lo stipendio, di restare, comunque, del tutto senza pane.

      Che malinconia ripensando a quel tempo! Nel 1961 ero un biondo ventinovenne longilineo alto un metro e novanta, non un ingobbito anziano spennacchiato e flaccido come oggidì, e godevo d’una forza leonina: un vigore che posso sentirmi dentro solo più in quei sogni dove ci si ritrova giovani, con il futuro ancora davanti agli occhi, non dietro la schiena. Sono Ranieri Velli e, solo per l’amico Vittorio, Ran. Ormai da tanti decenni – troppi, ahimè! – sono scrittore e giornalista professionista10 : colmo d’acciacchi.

      Quanto al D’Aiazzo, aveva allora quarantadue anni. Era uomo forte ma non alto, attorno al metro e sessantacinque, e vantava una rigogliosa capigliatura nera che, nel tempo, si sarebbe sempre più sfoltita. Eravamo amici da qualche anno e, privatamente, ci davamo del tu. Chi lo sa: forse il sodalizio era sorto per un mio intervento armato che gli aveva evitato di finir bersaglio d’un pistolero esagitato ch’io avevo ferito e bloccato, un attimo prima che facesse fuoco; o, semplicemente, l’amicizia poteva esser nata avendo gusti consentanei: fra altri comuni interessi, anche Vittorio era appassionato di letteratura classica e tante volte, fuor di servizio, ne parlavamo fra noi, a casa sua o al ristorante o passeggiando tutt’attorno al lungo quadrilatero11 di portici che corre in centro città: fra i poeti italiani, dopo Dante, ch’era ovviamente il primo assoluto per entrambi, per me veniva, e viene, l’immenso Leopardi, per lui il Foscolo. D’altronde, complice anche la nostra professione stressante e senza orari, lui era il mio unico amico e, come avevo capito, tal ero io per lui.

      Il neo commissario capo aveva messo termine in fretta alla bicchierata: “Va bbuo’ guaglioni, adesso al lavoro, ché abbiamo pratiche aperte e, per oggi, siamo ancora nella nostra unità. Domani vi comunicherò i cambiamenti.” Usciti gli altri e rivoltosi a me: “Senti, Ran: a Natale non sarai di turno, che ne diresti se t’invitassi a pranzo al solito ristorante di corso Palestro? Oppure tu e mammà preferite far tavola natalizia assieme?”

      Dopo il mio primo incarico, sotto Vittorio ma alla Squadra Mobile di Genova, nel 1959 eravamo stati entrambi trasferiti a Torino, mia città natale, e io ero tornato a vivere coi miei genitori, ben felici d’accogliermi, figlio unico, nel loro piccolo appartamento in un antico caseggiato in via Ignazio Giulio, non troppo lontano dalla Questura. Con nostro gran dolore mio padre era morto nel 1960, di colpo, per un ictus severo che l’aveva colto in casa il 28 dicembre: aveva ancor passato il Natale con mamma e me, allegramente. Quest’anno mia madre sarebbe rimasta sola a tavola, se io avessi accettato l’invito.

      “Non so”, avevo risposto dopo un paio di secondi d’incertezza, “ti dico domani?”

      Aveva capito: “...e perché non inviti con noi anche mammà?”

      “Ah... ma sì, grazie! Magnifico, le riferisco e ti dico domattina.”

      “...e domattina sia.”

      Mamma aveva preferito non accettare: “Fa’ il pranzo di Natale col tuo superiore, tranquillamente, mangio da sola, non me ne importa: un’insalata, un uovo e una pastasciutta al pomodoro. Io festeggio la Natività di Nostro Signore in chiesa. Però ti vorrei chiedere un favore, Ranieri: quella mattina, vieni con me a messa alla Consolata. Il santuario è proprio qui davanti, non c’è da fare strada, ed è una messa speciale, non solo perché è natalizia ma perché è quella che ho prenotato da mesi in suffragio dell’anima santa di tuo padre. Vieni, no?”

      Avevo annuito lietamente: “Certo che vengo! Per papà figúrati se non vengo; e così festeggio pure con te alla tua maniera. A che ora sarebbe?”

      “È la messa delle 11” aveva sorriso soddisfatissima d’attrarre a messa, almeno una volta, il figlioletto peccatore.

       FOTOGRAFIA FUORI TESTO

      

       Foto grafia, con obiettivo grandangolo, del palazzo della Questura di Torino scattata dall’ angolo fra Corso Vinzaglio e Via Grattoni, tratta dal Quotidiano Piemontese del 19 agosto 2014 alla pagina internet https://www.quotidianopiemontese.it/2014/08/19/provincia-torino-lacqua-gola-vende-palazzo-questura/

      

      

      

      Mia madre e io eravamo usciti dal santuario della Consolata poco prima di mezzogiorno, mancavano tre quarti d’ora all’appuntamento e Vittorio non aveva ancor iniziato a prender messa a Santa Barbara, sua parrocchia non molto lontana, in via Assarotti. M’aveva dato appuntamento davanti alla chiesa per l’una meno un quarto.

      “Buon Natale, caro”, m’aveva salutato la mamma con una carezza.

      “Buon Natale”, le avevo risposto sorridendo con intimo affetto, ma senza esternazione fisiche: non ero mai stato espansivo, nemmeno da bambino, e mia madre in quegli anni ne aveva sofferto, come m’avrebbe detto tanto tempo dopo, ma bonariamente, per sua dolcezza di carattere: una sola volta, poi non me l’aveva più rinfacciato, il che non significava che non se ne dolesse ancora, come oggidì posso intuire essendomi addolcito col passare degli anni; soltanto, non me lo faceva più capire. Penso che, viceversa, a mio padre il mio distacco sentimentale non importasse molto, egli era simile a me, o meglio io a lui. Così mia madre era doppiamente colpita. Oggidì farei ben diversamente con loro, ma da decenni non ci sono più.

      Mamma se n’era tornata a casa mentr’io m’ero avviato verso via Assarotti, a passo lento. Ero arrivato comunque in anticipo, per cui avevo girovagato un po’ per la zona. Verso l’una meno venti ero stato di nuovo davanti alla chiesa e avevo aspettato; un’attesa breve, l’amico se n’era uscito cogli altri fedeli dopo pochi minuti.

      Aveva prenotato il pranzo natalizio per le tredici. Il ristorante, un esercizio antico che esercita ancor oggi, è quasi in via Garibaldi e non lontano da Santa Barbara, per cui s’era giunti in fretta.

      Penso che, essendo il giorno di Natale e noi soltanto in due, non sarebbe stato possibile avere una gran bella sistemazione in nessun ristorante. Ci avevano ficcati a un tavolinetto equilatero in un angolo della sala. Tutte le sedie erano già occupate al nostro arrivo, a parte quelle d’una tavolata presso l’ingresso, che risultava però prenotata, come segnalava un cartellino che avevo visto di sfuggita entrando. Dopo un cinque minuti era giunto un gruppo che, su indicazione d’un cameriere, vi aveva preso posto: un gruppo che, come ancora non potevo sapere, in futuro avrebbe interessato a lungo le nostre indagini, perché sarebbe finito in una tal sequela di funesti eventi che, quasi, potremmo parlare di tragedia greca. Erano in sette: una coppia sulla settantina avanzata, un uomo sui quaranta con una graziosa donna per mano, apparentemente un po’ più giovane di lui, che poteva essere sua moglie, dato che stavano entrando assieme a loro una ragazzina e una bimba che avevo supposto loro figlie; ultimo, un uomo giovane piuttosto somigliante al precedente, forse suo fratello. L’anziano signore doveva conoscere Vittorio e aver conservato buona vista nonostante l’età non più verde, gli aveva infatti indirizzato lo sguardo e lanciato “Auguri commissario”, contraccambiato quasi subito dall’amico che, alzato lo sguardo e ravvisatolo, gli aveva rilanciato “Buon Natale, geometra.”

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