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che sulle prime li credetti un inganno tormentoso della mente insonnita.

      La notte le lampade elettriche rendevano a volte un subito fulgore abbacinante, segno che l'elica, emersa dalle acque, non consumava la sua tangente di forza, ond'era accresciuta la loro. Quando l'elica si rituffava, le lampade tornando al chiarore normale, sembravano battere le palpebre e venir meno. Quanto fastidio in quei getti di luce smodata, come di lampi fissi e come sembravano eterni i visibili minuti che l'elica, l'anima della nave, mulinava nell'aria!

      — Uno, due, tre... otto, dieci, e non scende ancora. Come può durare così a lungo sospesa? Oramai certo la prua si è tutta immersa nell'acque e s'avventa nel profondo verso l'abisso.

      La mattina al primo chiarire correvo alla doccia a scotermi le fibre intorpidite, ma per quanto essa facesse del suo meglio ed io del mio meglio la secondassi, a mala pena mi riusciva di azzeccare qualche spruzzo disperso, tanto il rullìo ed il beccheggio inclinavano la colonna dell'acqua ad opposti versi. Poi convenivamo i pochi validi, nella bottega del barbiere, possessore di un barometro compiacente, fervente spiritista, uomo ricco d'inventive e credulo anche a se stesso, il quale ci raccontava cupo, innumerevoli casi di telepatia.

      Tra i validi erano il prete americano ed un brioso ed amabile avvocato di Torino, mandato console d'Italia alla Nuova Orléans. Non c'era il Gaudissart, che dal primo mareggiare non fu più visto. Che avrà detto il suo aneroide verificato all'Osservatorio di Parigi? Peccato! Una burrasca, a bordo dei vapori francesi è così divertente! Tuttavia dopo ogni pasto lo Steward ci mesceva, di suo ordine, un bicchierino del suo eccellente cognac, che sorbivamo, ridendo, alla sua salute.

      Nessuna signora a tavola. La bella messicana fece però ogni mattina una breve apparizione sulla galleria che fascia alto in giro la sala da pranzo dove stanno il pianoforte, i libri ed i giornali illustrati. Ogni mattina essa portava alla cintura un ciuffo di freschi ciclamini. Il giorno dell'arrivo, la vidi gettare in mare il vaso sfiorito.

      Un'altra signora, alta, magra, pallida ed energica, irruppe un giorno dopo la colazione nella sala da pranzo e s'avventò ad un tavolino dove sedeva un grosso uomo sulla cinquantina, che noi chiamavamo, non so perchè, o forse lo era davvero: il giudice di Chicago. Le si piantò davanti ritta e fremente e prese ad apostrofarlo, con un getto serrato di parole sibilanti che nessuno, neppur egli forse, comprese. Aveva la voce roca e fioca del mal di gola. Ne disse un profluvio, fino a che, esausta, lui sempre muto ed immobile, si ritrasse come era venuta. Il giudice non aveva battuto palpebra, nè dato prima nè poi nessun segno di rammarico o di noia. Sapemmo di poi dal commissario che essa era la moglie di quell'apatico, da tre giorni malata e malate pure le due figliuole. E da tre giorni e tre notti, egli non aveva più messo piede nella cabina. Le poverette se n'erano lagnate col dottore che gli aveva girato le lagnanze, l'avevano mandato a chiamare pel cameriere, ma senza frutto. Il bello si è che gli ultimi due giorni, quetata la tempesta, come le donne furono sul ponte all'aperto, egli si mostrava loro premuroso ed affettuosissimo. Un barometro di tenerezza.

      Il comandante passò quarantotto ore filate sulla passerella: non ne scendeva che all'ora dei pasti cui si presentava lindo ed attillato come ad un ballo, mentre il primo giorno a tempo bello e colle tavole affollate era venuto in abito dimesso. Era un uomo semplice, punto mondano. Noi commensali, tutti uomini, che avevamo smesso oramai di mutar d'abito pel desinare a scanso di fatica e di sforzi d'equilibrio, gli domandammo un giorno la ragione di quella intempestiva eleganza.

      — Non lo faccio per voi, signori, ma per gli assenti. Ci sono molti più malati di paura che di mal di mare. Non avete osservato quando ci mettiamo a tavola, il trillare fastidioso di tanti campanelli? Sono passeggieri che chiamano le persone di servizio per mandarle a spiare l'aspetto del comandante. E come lo sanno ravviato e pulito, si acquietano, sicuri che per un'ora almeno non si colerà a picco.

      I due artisti di canto «du Théâtre de l'Opéra» erano anch'essi sani e disposti. La prima giornata di viaggio, avevano motteggiato di continuo, con molta sudiceria, sulle dodici monache. Nel pieno della burrasca, come uno di essi fece per tornare ridendo sullo stesso discorso, l'altro lo riprese serio serio:

      — Tais toi. Ce sont ces saintes files, avec leurs prières qui nous protègent.

      Mezz'ora dopo, il motteggiatore canterellava seduto al pianoforte (ci passava le giornate lo scellerato), certe sue canzonette. A un colpo di mare, lo sgabello a vite si spezzò di netto e lo sbattè la testa prima contro lo spigolo di una tavola, troppo salda quella. L'urto fu tale che rimase privo di sensi. Lo sollevammo grondante sangue da una larga ferita tra i capelli. Mentre lo reggeva accompagnandolo nella stanza del medico, il compagno, gli andava ripicchiando, con un comico cruccio: Tu vois! Tu vois! Tu vois! Così fra piccoli e diversi episodi, dalla mattina alla sera tanto tanto ci si arrivava. Ma la notte! Mi par di sentire ancora in un remoto ronzìo il giudice di Chicago, seduto ad un tavolino con due amici, versare senza posa, con voce bassa e nasale, lenti fiumi di parole. Egli parlava bevendo, quelli bevendo tacendo, e via via, tra i brevi miei sonni, tra i boati dell'onde e del vento, tra lo sconquasso della nave occhiuta e raggiante sul convulso mar tenebroso, la voce inestinguibile dilagava in nota continua di contrabbasso. Che poteva egli dire, ogni notte, tutta la notte, con sì stagnata uniformità di accenti? Quale oscura serie di misfatti andava confessando ai compagni allibiti?

      Il venerdì, presso il banco di Terranova, la burrasca quietò alquanto. Era ancora mare rotto e perverso, ma ci furono dischiuse le uscite al ponte scoperto che s'andò in breve ripopolando di gente ancora sbattuta dai lunghi patimenti. Rivedemmo la bella ebrea, i due cubani e sul tardi, Gaudissart. Il commissario indicandomi lontano sull'acque alcuni punti neri, che sembravano canotti rovesciati, me li dà per balene. Credo per atto di fede. Passa in vista e s'avvicina, un gran bastimento diretto in Europa. È una festa grande di saluti e di grida.

      Sono involontario spettatore di una scenetta patetica.

      Il ponte scoperto è spartito in due grandi corsie lungo i fianchi della nave, fra le quali sorge il castello di mezzo, che copre lo spazio dato alle macchine, le due boccaporte e le scale della prima classe. Per passare d'una corsìa all'altra bisogna girare il castello verso prua, od attraversarlo per un andito stretto che lo taglia ai due terzi della sua lunghezza verso poppa. Quivi pende alla parete il barilotto che protegge una miccia accesa a comodo dei fumatori ai quali è severamente interdetto di accendere fiammiferi. Ma le macchine vi spandono un tale insopportabile fetore d'olio bruciato, che pochi ci passano ed alla interdizione non pensa nessuno.

      Ora, verso le quattro di sera, non potendo io al vento accendere la pipa, mi sovvenni della miccia ed infilai l'andito. Uno dei cubani stava in un canto piangendo come un fanciullo, di quel pianto a lungo rattenuto che rompe il petto e che versato da persona vigorosa fa strazio a vedere, mentre la bella ebrea, ritta presso di lui gli andava asciugando le lagrime in atto di pietà calmante e nulla concedente. Mi ritrassi tosto, seccato. La sera, si dava nel salone il trattenimento solito ad ogni traversata a beneficio delle vedove e degli orfani dei marinai. Vi cantarono, i due artisti dell'Opéra (uno aveva la testa fasciata), e la bella ebrea vi recitò a meraviglia un monologo inglese pieno di reticenze maliziose, e cantò due canzonette francesi, a imitazione della Judic. Il cubano era tra gli spettatori, domato, ma non plaudente. Quando mi vide, mi lanciò un'occhiata feroce.

      Il sabato mattina ci si fa incontro il pilota, che porta segnato sull'ampia vela triangolare un vistoso numero, argomento di vistose scommesse. Voli di passeri innondano con domestica sicurezza la nave. A sera emerge dell'acque, bruna contro il sole cadente, la terra d'America. Sbarcheremo domattina.

      La prima cura di chi scende a terra dopo una lunga traversata è di precipitarsi al boteghino del telegrafo, piantato apposta sullo scalo, onde dare ai cari lontani la notizia dell'arrivo. E quanto più fu cattivo il viaggio tanto è maggiore in tutti la smania di annunziarlo compiuto. Già dal primo rallentare della nave, io m'ero appostato sul passo dell'uscita per potermi precipitare allo sportello telegrafico innanzi che urgesse la folla. Tenevo colle due mani i due capi della ringhiera. La nave era già ferma e ci stava ai piedi sulla banchina una gran gente in attesa. Correvano dalla tolda a terra, parole e grida di riconoscimento e di saluto. Ed ecco che mi viene accanto una bellissima fanciulla sui vent'anni, fresca, rosea, trepidante, la quale non si ristava dal chiamare

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