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pausa, come se stesse ponderando le parole. “Fa’ buon viaggio.”

      Zoe fissò il telefono che aveva in mano: lo schermo adesso si era oscurato, la chiamata era terminata. Per un breve istante pensò che fosse un’assurdità: non avrebbe mai pensato all’eventualità di non chiamarlo una volta rientrata. Per quale motivo avrebbe dovuto mettersi volontariamente in una situazione così orribile?

      Ma non aveva idea di cosa lui volesse dire. Soltanto perché era abituata a essere rifiutata, per via delle sue capacità e del modo in cui la facevano sembrare diversa e strana agli occhi di chiunque altro, non voleva dire che anche lui le avrebbe riservato lo stesso trattamento. Pensò alla dottoressa Monk e a cosa le avrebbe detto – probabilmente qualcosa a proposito di non avanzare ipotesi per conto degli altri – e cercò di sgombrare la mente.

      Un tintinnio catturò la sua attenzione mentre tirava fuori un sacco della biancheria da sistemare in valigia per i suoi vestiti sporchi. Le mani di Zoe volarono verso le orecchie, e si accorse che nella fretta e nella confusione di prepararsi non aveva ancora tolto gli orecchini.

      Si avvicinò lentamente allo specchio del bagno, la prima volta che aveva fatto una pausa da quando aveva lasciato l’ufficio dell’Agente Maitland. L’eyeliner stava ancora delineando i suoi occhi, ricordandole come avrebbe dovuto andare la serata. Con rammarico, Zoe cercò il suo detergente per il viso e un panno. La serata era finita, ed era inutile cercare di aggrapparvisi con un ricordo che le sarebbe sbavato sul viso in aereo.

***

      Zoe si strofinò gli occhi e sbadigliò. Era quasi l’alba, sebbene nessuna delle due potesse saperlo. Avevano abbassato la tendina del finestrino per impedire alla luce di entrare, lasciando il mondo esterno all’immaginazione e cercando di approfittare di qualche ora di sonno.

      Alla fine, quattro ore si erano dimostrate appena sufficienti per Zoe per cambiarsi e indossare vestiti più adatti per il viaggio, prendere la valigia, impostare la mangiatoia per gatti a rilascio programmato, spostare qualche appuntamento e incontrarsi nuovamente con Shelley al Quartier Generale per recarsi insieme all’aeroporto. Appena salite sull’aereo, avevano convenuto sulla necessità di riposare un po’ per riuscire a combinare qualcosa di buono una volta atterrate.

      “Ok,” disse. “Quindi al nostro arrivo ci aspetta un’auto a noleggio già pagata, giusto?”

      “Sì,” confermò Shelley, sfogliando il dossier che avevano ricevuto. “A quanto pare il Bureau ha preteso una consegna prioritaria, quindi non ci vorrà molto per metterci in viaggio.”

      “Per dove?”

      “Qui dice Broken Ridge,” disse Shelley, passando già alla pagina successiva.

      Il cuore di Zoe iniziò a batterle forte nel petto. “Broken Ridge?” domandò, nella vana speranza di aver sentito male.

      “Già, a circa un’ora di auto dall’aeroporto,” confermò Shelley, studiando velocemente la mappa. “Perché?”

      Zoe deglutì. “Solo per sapere,” rispose.

      Non era vero. La verità era qualcosa che non voleva ammettere: che la città di Broken Ridge era vicina, insopportabilmente vicina a dove Zoe era cresciuta. Talmente vicina che riusciva a  immaginare il posto nella sua mente. Ricordava ci fosse un parco eolico non lontano dalla città, un sito che era stato sviluppato durante gli anni della sua gioventù.

      Pensieri e ricordi di Broken Ridge portavano inesorabilmente a pensieri e ricordi di casa. Ma il luogo in cui era cresciuta non era mai stato abbastanza gentile nei suoi confronti da essere chiamato casa. Figlia del diavolo: la voce di sua madre le risuonò nelle orecchie, chiara adesso come quando aveva otto anni e si rannicchiava accanto al suo letto, con le mani giunte per recitare una falsa preghiera.

      Zoe fece un respiro, chiudendo gli occhi e iniziando a contare. Inspira per tre secondi, espira per quattro. Per un istante pensò quasi di riuscire a sentire il calore di un sole tropicale sul suo viso, escludendo sia i dintorni dell’aereo che i ricordi che si affollavano nella sua mente.

      Aprì gli occhi, nuovamente concentrata e calma. “Cos’abbiamo sulle vittime?” domandò.

      “Ecco,” disse Shelley, porgendole un singolo foglio di carta. Ne tenne un altro per sé e iniziò a leggere ad alta voce. “La prima è una certa Michelle Young, secondo il documento d’identità che aveva in tasca. Non sono riusciti a identificarla dal viso perché la testa era sparita.”

      Zoe imprecò sottovoce. “Non l’hanno ancora ritrovata?”

      Shelley fece cenno di no con la testa. “Però c’è una foto recente. Ecco.” Sollevò la foto di una bionda sorridente che guardava direttamente verso la fotocamera. C’era un braccio attorno alle sue spalle, ma l’altra persona era stata rimossa. “Sembra sia stata decapitata con qualcosa di affilato, probabilmente un qualche tipo di spada. Segni di taglio; la valutazione iniziale parla di una lama lunga, probabilmente un machete. Aveva una trentina d’anni. Un metro e settantacinque, settantatre chili. Nessun tatuaggio. Lavorava come cassiera di banca. Era quella nell’altra città, Easterville.”

      Zoe iniziò a parlare non appena Shelley alzò lo sguardo, dopo aver finito di elencare i dettagli del suo rapporto. “Io ho Lorna Troye,” lesse. “Anche la sua testa è scomparsa. Trentadue anni, un metro e settanta centimetri, cinquantanove chili. A quanto pare, era un’illustratrice freelance. C’è una sua foto.”

      Guardarono entrambe la foto di Lorna, scattata per la pagina profilo del suo sito web. Sorrideva cordialmente verso l’obiettivo, nonostante avesse una posa rigida e professionale. In mano aveva una matita sollevata sopra un blocco da disegno, come se stesse per mettersi al lavoro.

      Ci fu un attimo di silenzio tra le due mentre guardavano le foto delle donne morte. Una bionda e una bruna, proprio come Shelley e Zoe. Oltretutto, Zoe aveva quasi la stessa età, mentre Shelley era qualche anno più giovane.

      Siamo nelle mani di Dio, si diceva. Ma dato che Zoe aveva smesso di credere in Dio dopo aver smesso di credere in ciò che le diceva sua madre – che nelle sue vene scorreva il sangue del demonio, e che era quello a farle vedere i numeri – non aveva idea di cosa la rendesse così fortunata.

      “Atterreremo a breve,” disse Shelley, trattenendo uno sbadiglio. “Dovremmo prepararci.”

      Prepararsi, pensò Zoe. E precisamente come avrebbe fatto a prepararsi ad atterrare nell’unico posto dal quale aveva cercato di scappare per tutta la sua vita?

      Allacciò la cintura di sicurezza, sapendo di avere poca scelta.

      CAPITOLO CINQUE

      Il sole del primo mattino avvolgeva tutto in una luce spettrale mentre Zoe seguiva Shelley attraverso il parcheggio, rimanendo indietro con aria riluttante. Aveva la sensazione di essere in un luogo semi-conosciuto, ma che non ricordava abbastanza bene da percorrere con sicurezza.

      E poi c’era quell’altra sensazione, quella che le sussurrava che avrebbe anche potuto imbattersi in qualcuno che una volta conosceva, trovandosi così vicino casa. Il parcheggio era pieno di veicoli statali: il furgoncino del medico legale, le auto del dipartimento dello sceriffo locale e quelle di vari altri funzionari che si erano indubbiamente precipitati qui con la brama di occuparsi di un crimine di questa portata in una città così piccola. Non era un lavoro ordinario per loro: per questo era così importante ricevere l’aiuto dell’FBI.

      “Sceriffo Hawthorne?” disse Shelley, riparandosi gli occhi con una mano e facendo un cenno dall’altro lato del nastro segnaletico ufficiale verso un uomo in tenuta marrone e beige. Lui le rivolse un cenno di risposta e iniziò ad arrancare verso di loro, con i capelli bianchi che riflettevano il sole come un’aureola che sovrastava il suo metro e ottantatre centimetri d’altezza.

      “Voi dovete essere le ragazze dell’FBI,” disse, squadrando le loro giacche a vento e le uniformi nere regolamentari del Bureau. “Il cadavere è stato portato via. Ho dovuto farlo per sottrarlo agli agenti atmosferici. Ma la scena del crimine è stata preservata ed è pronta perché possiate esaminarla.”

      “Io

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