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decisamente intenzionato a mettersi a letto con un bicchierino di whiskey e uno dei suoi classici.

      Il parcheggio della Georgetown era quasi vuoto, la maggior parte degli altri docenti aveva avuto il buon senso di andare a casa già da un bel po’. Il tempo era freddo e cupo, le luci dei lampioni tremavano ogniqualvolta una falena andava a sbattervi con intento suicida. Henderson tagliò attraverso le piazzole vuote, prendendo una scorciatoia per dirigersi verso la propria auto. Si gingillò brevemente con l’idea di fermarsi da qualche parte sulla strada del ritorno per prendere un caffè da asporto. Ma forse sarebbe stato meglio tornare semplicemente a casa il prima possibile, alla sicurezza e al calore del proprio focolare.

      I suoi passi risuonarono nel garage con una lugubre eco, il soffitto e il pavimento di cemento permettevano ai suoni di rimbalzare da una parte all’altra. In notti come questa, il garage si trasformava in un altro tipo di bestia. Un luogo dove loschi figuri avrebbero potuto nascondersi nell’ombra, pronti a sferrare il proprio attacco. Impossibile allontanare quel pensiero, nonostante continuasse a ripetersi di essere una persona adulta e di doverla piantare di sentirsi impaurito dal buio.

      Sia chiaro, questa sera c’era un valido motivo per sentirsi nervosi. Nel campus giravano voci di un omicidio che era stato commesso proprio lì, sotto i loro nasi. Uno studente che Henderson aveva conosciuto. Forse era questa la ragione della pelle d’oca che provava mentre percorreva il garage, e il motivo per il quale non poteva fare a meno di lanciare occhiate furtive e di spalancare gli occhi, cercando di capire se ci fosse qualcuno nascosto nel buio.

      Cercò di distrarsi. C’era altro a cui pensare. Aveva dovuto respingere un ragazzo dal suo corso per aver sbagliato un altro compito. Era così frustrante insegnare, vedere questi ragazzi con così tanto potenziale farsi coinvolgere dalle feste e non prendere seriamente i propri studi. Henderson lo aveva bocciato con rammarico, ma dopo aver ricevuto un’e-mail dallo studente, si sentiva molto più che giustificato.

      L’e-mail era piena di astio, al limite del minaccioso. A quanto pare, il ragazzo non aveva preso bene il fatto di essere stato bocciato e voleva accertarsi che Henderson lo sapesse. Come se un gesto del genere potesse in qualche modo reintegrarlo nel corso. Come no! Il ragazzo aveva un sacco di cose da imparare a proposito della vita e di come le persone reagivano al modo in cui venivano trattate.

      Henderson raggiunse l’auto e armeggiò con le chiavi, le sue dita erano rigide e lente per aver scritto un sacco di note mentre valutava le prove degli studenti. Imprecò contro se stesso, un tremore prese il sopravvento sulle sue mani, spinto dall’isolamento del garage di sera. Si stava comportando da sciocco. Era un uomo adulto, santo cielo, e di giorno attraversava questo garage senza neanche pensarci.

      Ad ogni modo, pensò cupamente, se qualcuno lo avesse seguito sarebbe stato sicuramente quello studente arrabbiato. E lui non era abbastanza intelligente da pedinare un professore nell’oscurità di un garage. Era il tipo di ragazzo che inviava e-mail arrabbiate e lasciava una traccia. Nulla di cui doversi preoccupare seriamente. Henderson avrebbe fatto rapporto al preside domattina, e sarebbe finita lì.

      Cos’era quel rumore? Erano passi? Qualcosa non quadrava. Finora aveva respinto le proprie paure, ma adesso si sentiva meno sicuro. La sensazione di pelle d’oca sulla nuca di Henderson si intensificò, una sorta di premonizione, ma prima che potesse voltarsi la sua testa fu sbattuta con estrema violenza contro il finestrino dell’auto.

      Henderson ebbe a malapena il tempo di rendersene conto e di avvertire il dolore travolgente che proveniva dal suo naso, prima che la mano che lo teneva fermo dalla nuca la sbattesse nuovamente contro la fiancata dell’auto. Si stava lasciando andare sempre di più, sopraffatto dallo shock e dalle ferite, il suo corpo diventava fiacco. Cercò di divincolarsi un po’, facendo cadere la valigetta a terra, ma non riuscì a opporsi al colpo successivo, né a quello dopo. La sua testa continuò a colpire il telaio rosso dell’auto: la tempia, la parte superiore di un’orbita oculare, la mascella, appena sotto l’orecchio.

      Avvertì le ferite con una sorta di shock distante. Il rumore di un osso che si spezzava. Il pensiero dei lividi che gli spuntavano sul viso, poi dei tagli e delle escoriazioni, quindi di qualcosa di più grave. Tutto ciò che riuscì a pensare, stupidamente, fu che la sua faccia ne sarebbe uscita rovinata. Tutto ciò che ebbe tempo di pensare prima della fine.

      La mano che lo teneva stretto allentò la presa e Henderson si afflosciò impietosamente a terra, sbattendo una spalla. Lo sentì a stento, rispetto a tutto il resto. Ora la sua posizione gli permetteva di girare la testa e guardare, nonostante fosse intontito e avesse la vista offuscata. Forse dipendeva dai colpi ricevuti, o forse dal sangue che colava davanti ai suoi occhi. O, probabilmente, dal fatto che la sua orbita oculare doveva essere ormai frantumata.

      Chi era quello? Una forma vaga, soltanto un sospiro, come se davanti a lui ci fosse un fantasma piuttosto che un uomo. Ma si trattava di un uomo, doveva esserlo. Se soltanto fosse riuscito a capire chi … ma i sensi di Henderson stavano scivolando via da lui come sabbia attraverso le dita, e alla fine non riuscì più a resistere. Qualcosa lo stava abbandonando, lasciandolo freddo e vuoto. Sapeva che era quasi finita. Il mondo attorno a lui stava diventando oscuro, la figura eterea che lo sovrastava guardava in silenzio.

      L’ombra si allungò sopra di lui e sollevò la sua testa un’ultima volta, sbattendola violentemente sull’asfalto, un impatto di cui Henderson si rese conto a malapena prima di precipitare nell’oscurità.

      Il lavoro era stato portato a termine.

      Non si sarebbe mai più risvegliato.

      CAPITOLO UNO

      Zoe seguì le crepe sul bracciolo della poltrona in pelle, notando come il loro schema rivelasse una storia di invecchiamento, di tutte quelle mani e quelle braccia diverse che si erano poggiate proprio su quel punto. Non riusciva a capire se si trattasse di una cosa confortevole, di un indice di esperienza o se fosse semplicemente una cosa disgustosa. Chissà quali germi si annidavano all’interno del tessuto.

      “Zoe?” la dottoressa Lauren Monk la richiamò all’attenzione, da una sedia altrettanto confortevole posizionata di fronte a lei.

      Zoe alzò lo sguardo con aria colpevole. “Mi scusi, avrei dovuto risponderle?”

      La dottoressa Monk sospirò, battendo la penna su un blocchetto d’appunti che aveva in mano. Nonostante la presenza di un registratore sulla scrivania durante tutte le loro sedute, sembrava che la dottoressa Monk fosse ancora un’amante dei metodi tradizionali. “Cambiamo approccio per un momento,” disse. “Ormai abbiamo svolto insieme diverse sedute, non è così Zoe? Noto che a volte hai qualche problema con i segnali sociali.”

      Ah. Quello. Zoe minimizzò, cercando di assumere un’aria di indifferenza. “Non sempre riesco a capire le reazioni delle persone.”

      “O i modi in cui si aspettano che tu reagisca?”

      Zoe scrollò nuovamente le spalle, il suo sguardo si spostò alla finestra. Quindi si sforzò di concentrarsi di più: avrebbe dovuto prendere parte attivamente a queste sedute, non comportarsi come un’adolescente complessata. “La mia logica è diversa dalla loro.”

      “Perché pensi che lo sia?”

      Zoe sapeva perché, o almeno pensava di saperlo. I numeri. I numeri che erano ovunque guardasse, in qualsiasi momento della giornata. Persino adesso le stavano rivelando la gradazione degli occhiali indossati dalla dottoressa (abbastanza forti da richiedere a malapena un qualche tipo di aiuto), il fatto che c’era mezzo millimetro di polvere sulle cornici dei certificati appesi alle pareti ma solo un quarto di millimetro sulla cornice della laurea in psicologia (che indicava un forte senso di orgoglio per aver raggiunto quel risultato rispetto a tutti gli altri), e che finora la dottoressa Monk aveva scritto esattamente sette parole durante la loro conversazione.

      Desiderava dirglielo, o almeno una parte di lei lo voleva. Non aveva ancora ammesso alla dottoressa Monk di avere una capacità che, a quanto pare, nessun altro possedeva. Nessuno a parte il serial killer occasionale, se il caso al quale aveva lavorato un mesetto fa le aveva insegnato qualcosa.

      Ma c’era un’altra parte di lei, quella tuttora prevalente, che non aveva intenzione di ammettere proprio un bel niente.

      “Sono

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