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cacciatore. Se qualcuno può trovare il colpevole è lui. A parte te, ovviamente.”

      “Io so già chi è stato, John.” Scosse amareggiato il capo. Pensò subito a Maria; la donna era un’agente come loro, un’amica, e forse qualcosa di più. Era anche una delle poche persone di cui Reid si fidava. L’ultima volta che aveva avuto sue notizie, Maria Johansson era stata in Russia a inseguire Rais. “Devo contattare Johansson. È giusto che sappia che cosa è successo.” Sapeva che la CIA non l’avrebbe richiamata fino a quando lui non avesse trovato le prove che dimostravano la colpevolezza dell’assassino di Amun.

      “Non puoi farlo, non mentre è sul campo,” rispose Watson. “Ma posso cercare di entrare in contatto con lei in qualche altra maniera. Le dirò di chiamarti non appena riuscirà a trovare una linea sicura.”

      Reid annuì. Non gli piaceva il pensiero che Maria fosse irraggiungibile, ma non poteva farci niente. Durante le operazioni non si potevano usare i cellulari personali, e la CIA monitorava le sue comunicazioni.

      “Hai intenzione di dirmi dove stiamo andando?” domandò. Stava iniziando a innervosirsi.

      “Da qualcuno che può aiutarci. Ecco.” Gli gettò un piccolo telefono a conchiglia argentato, uno usa e getta, che la CIA non avrebbe potuto tracciare a meno che non avesse saputo della sua esistenza e a che numero rispondeva. “Lì dentro ci sono alcuni contatti. Uno è per la mia linea sicura. Un altro è quello di Mitch.”

      Reid batté le palpebre. Non conosceva nessun Mitch. “Chi diavolo sarebbe?”

      Invece di rispondere, Watson guidò il SUV fuori strada e nel vialetto di un’officina chiamata Third Street Garage. Parcheggiò il veicolo dentro il garage aperto. Non appena spense il motore, il portellone del negozio si chiuse dietro di loro.

      Entrambi uscirono dalla macchina e Reid cercò di abituare i propri occhi all’oscurità. Poi le luci si accesero, brillanti lampadine fluorescenti che gli riempirono la vista di puntini luminosi.

      Accanto al SUV, in un secondo spazio nel garage, c’era un’auto nera, un modello Trans Am degli anni ’80. Non era una macchina nuova ma la vernice era lucida e sembrava data da poco.

      Insieme a loro c’era anche un uomo. Indossava una tuta di un colore blu scuro che nascondeva a malapena le macchie di grasso. I suoi lineamenti erano oscurati da un’arruffata barba castana e da un cappellino rosso da baseball con i bordi scoloriti dal sudore, che portava basso sulla fronte. Il meccanico si ripulì lentamente le mani su uno straccio lurido e macchiato d’olio, fissando Reid.

      “Lui è Mitch,” disse Watson. “È un amico.” Gettò un mazzo di chiavi al collega e indicò la Trans Am. “È un modello vecchio, quindi è senza GPS. È affidabile. Sono anni che Mitch la sistema, quindi vedi di non distruggerla.”

      “Grazie.” Aveva sperato in qualcosa di meno appariscente, ma avrebbe accettato tutto l’aiuto che gli avrebbero fornito. “Che posto è questo?”

      “Questo? È un garage, Kent. Qui aggiustano le auto.”

      Reid roteò gli occhi. “Sai che cosa voglio dire.”

      “L’agenzia sta già cercando di tenerti d’occhio,” spiegò Watson. “Proveranno a rintracciarti in ogni modo possibile. A volte nel nostro mestiere sono utili degli… amici esterni, per così dire.” Indicò il corpulento meccanico. “Mitch è una risorsa della CIA. L’ho reclutato quando ero alla National Resources Division. È esperto nel, ehm, ‘recupero veicoli’. Se devi andare da qualche parte, ti basta chiamare lui.”

      L’agente annuì. Non sapeva che il collega si fosse occupato di reclutare risorse prima di iniziare a lavorare sul campo. In realtà doveva ammettere che non sapeva neanche se John Watson era il suo vero nome.

      “Andiamo, ho delle cose per te.” L’uomo aprì il bagagliaio e gli mostrò il contenuto di una sacca nera.

      Reid fece un passo indietro per lo stupore: all’interno c’era ogni genere di dispositivo utile, inclusi registratori, GPS, uno scanner di frequenze e due pistole, una Glock 22 e la sua arma di scorta preferita, una Ruger LC9.

      Scosse sbalordito la testa. “Come hai trovato questa roba?”

      Watson scrollò le spalle. “Un amico comune mi ha dato una mano.”

      Non dovette chiedergli di chi stesse parlando. Bixby. L’eccentrico ingegnere della CIA che passava la maggior parte delle sue ore in un laboratorio di ricerca e sviluppo sotterraneo sotto Langley.

      “Tu e lui vi conoscete da molto, anche se non te lo ricordi,” gli spiegò l’altro uomo. “Ma ha detto che avrei dovuto ricordarti di qualche test?”

      Reid annuì. Bixby era uno degli inventori del soppressore sperimentale di memoria che gli avevano istallato nella testa, e l’ingegnere gli aveva chiesto di fare qualche test su di lui.

      Può aprirmi il cranio se significa riavere indietro le mie figlie. Un’altra ondata travolgente di emozione lo assalì, al pensiero di tutte quelle persone disposte a violare leggi e a rischiare la vita, anche se lui non riusciva a ricordarsi affatto di loro. Batté le palpebre per scacciare le lacrime che gli erano salite agli occhi.

      “Grazie, John. Davvero.”

      “Non ringraziami ancora. Abbiamo appena iniziato.” Il telefono di Watson gli vibrò nella tasca. “Deve essere Cartwright. Dammi un minuto.” Si ritirò in un angolo per rispondere alla chiamata a bassa voce.

      Reid richiuse la borsa e il bagagliaio. Allo stesso tempo il meccanico grugnì, emettendo un suono tra un borbottio e un colpo di tosse.

      “Ha… ha detto qualcosa?”

      “Ho detto che mi spiace. Per le sue figlie.” L’espressione di Mitch era ben nascosta dalla barba folta e dal cappello, ma il tono della sua voce sembrava sincero.

      “Sa già… di loro?”

      L’uomo annuì. “Sono già apparse al telegiornale. Le loro foto e una linea verde da chiamare in caso qualcuno le avvisti.”

      Reid si morse il labbro. Non aveva pensato alla stampa e alla pubblicità… e all’invariabile collegamento a lui. Subito pensò a Linda, la zia delle ragazze che viveva a New York. Quel genere di notizie si spargevano in fretta, e se fosse arrivata fino a lei sarebbe morta di spavento. Avrebbe cominciato a tempestarlo di telefonate per ricevere notizie, ma inutilmente.

      “Abbiamo qualcosa,” annunciò Watson all’improvviso. “Il pick-up di Thompson è stato ritrovato in un’area di sosta a un centinaio di chilometri da qui sulla I-95. C’era il cadavere di una donna sulla scena. Le hanno tagliato la gola e rubato l’auto e la carta d’identità.”

      “Quindi non sappiamo chi fosse?”

      “Non ancora ma ci stiamo lavorando. Ho un tecnico che sta ascoltando le onde radio della polizia e tenendo d’occhio i satelliti. Non appena qualcuno saprà qualcosa, ci informeranno.”

      Reid grugnì. Senza un documento d’identità non sarebbero riusciti a trovare il suo mezzo. Non era una gran pista, ma almeno era qualcosa e lui non vedeva l’ora di mettersi in strada. Aprì la porta della Trans Am e chiese: “Quale uscita?”

      Watson scosse la testa. “Non andare là, Kent. Sarà pieno di poliziotti e sono sicuro che anche l’agente Strickland sia diretto sulla scena.”

      “Farò attenzione.” Non si fidava della polizia e di quell’agente novellino. Avrebbe trovato più indizi di loro. Oltretutto se Rais voleva giocarsela come credeva, avrebbe potuto esserci un’altra traccia sotto forma di provocazione, un insulto inteso solo per lui.

      Ripensò alla foto delle sue figlie, quella che Rais gli aveva mandato dal telefono di Maya, e gli tornò in mente una cosa. “Ecco, tieni questo per me.” Gli affidò il suo cellulare privato. “Rais ha il numero di Sara, e io ho dirottato le sue chiamate sul mio. Se dovessi ricevere qualsiasi cosa, voglio esserne informato.”

      “Certo. La scena del crimine

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