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arrivata.

      Qassem allora si voltò e lo guardò. “Fratello,” disse.

      “Sì?”

      “Questi missili sono un segreto, sai. Nessuno può sentirne parlare.”

      Il camionista annuì. “Certo.”

      “Hai amici, famiglia?”

      Il camionista sorrise. “Sì. Una moglie, tre figli. Piccoli. Ho ancora mia madre. Sono noto nel mio villaggio e nel circondario. Suono il violino da quando ero piccolissimo, e tutti mi chiedono una canzone.”

      Fece una pausa. “Una vita piena.”

      Il sayyid annuì, un po’ triste.

      “Allah ti ricompenserà.”

      Al camionista quelle parole non piacquero. Era la seconda volta che Qassem menzionava la ricompensa. “Sì. Grazie.”

      Vicino a Qassem, due grossi uomini si tolsero i fucili dalle spalle. Un secondo dopo li avevano pronti, puntati sul camionista.

      Il camionista si mosse appena. Non sembrava giusto. Stava accadendo così velocemente. Il cuore gli martellava nelle orecchie. Non si sentiva le gambe. Né le braccia. Aveva intorpidite persino le labbra. Per un secondo, cercò di pensare a che cosa potesse aver fatto per offenderli. Niente. Non aveva fatto niente. Tutto ciò che aveva fatto era stato portare lì il camion.

      Il camion… era un segreto.

      “Aspettate,” disse. “Aspettate! Non lo dirò a nessuno.”

      Qassem adesso scosse la testa. “L’Onnisciente ha visto il tuo bel lavoro. Ti aprirà i cancelli del Paradiso questa sera stessa. È la promessa che ti faccio. È la mia preghiera.”

      Troppo tardi, il camionista si girò per scappare.

      Un istante dopo, udì il forte CRACK quando la prima arma sparò.

      E si accorse, mentre il terreno gli veniva incontro veloce, che la sua intera vita era stata vana.

      CAPITOLO DUE

      11 dicembre

      9:01 ora della costa orientale

      Studio Ovale

      Casa Bianca, Washington DC

      Susan Hopkins non riusciva quasi a credere a quello che vedeva.

      Si trovava in piedi sul tappeto del salottino dello Studio Ovale – le comode poltrone dagli alti schienali erano state rimosse per i festeggiamenti della mattina. Trenta persone gremivano la stanza. Kurt Kimball e Kat Lopez le stavano accanto, così come Haley Lawrence, il suo segretario della Difesa.

      Lo staff della residenza della Casa Bianca era tutto lì su sua insistenza, lo chef, le cameriere, i domestici, che si mescolavano agli altri invitati – i direttori della National Science Foundation, della NASA e del National Park Service, per dirne alcuni. C’era una manciata di personalità del giornalismo, così come due o tre cameramen attentamente selezionati. C’erano molti agenti dei servizi segreti, accostati alle pareti e a punteggiare la folla.

      Su un grosso monitor televisivo montato vicino alla parete di fondo, Stephen Lief, un uomo che Susan poteva aspettarsi di non vedere mai in carne e ossa finché il suo mandato di presidente non fosse finito, stava per prestare il giuramento del vicepresidente. Stephen era sul finire della mezza età, assennato negli occhiali rotondi, i capelli grigi che si diradavano e si ritiravano sulla cima del cranio come un esercito in una ritirata disorientata. Aveva un corpo vagamente a pera, nascosto da un gessato Armani blu da tremila dollari.

      Susan conosceva Stephen da tempo. Sarebbe stato il suo sfidante principale nelle ultime elezioni, se non fosse intervenuto Jeff Monroe. Prima, nei suoi giorni da senatore, era stato l’opposizione leale dei banchi opposti, un conservatore moderato, anonimo – cocciuto ma non pazzoide. Ed era un uomo carino.

      Ma era anche del partito sbagliato, e per questo lei si era beccata molte critiche accese dagli ambienti liberali. Era un possidente terriero aristocratico, di famiglia ricca – uno della Mayflower, la cosa più simile alla nobiltà che avesse l’America. A un certo punto, pareva che avesse pensato che diventare presidente fosse suo diritto di nascita. Non certo il tipo di Susan – gli aristocratici che si credevano dei privilegiati tendevano a mancare del tocco comune che aiutava a connettersi con le persone che, ipoteticamente, si dovevano servire.

      Era un provvedimento che dimostrava quanto Luke Stone le fosse entrato dentro, anche solo che avesse preso in considerazione Stephen Lief. Era stata un’idea di Stone. Stone gliel’aveva presentata scherzando, mentre i due giacevano insieme nel grande letto presidenziale. Lei stava riflettendo ad alta voce sui possibili candidati alla vicepresidenza, e Stone aveva detto:

      “E perché non Stephen Lief?”

      Lei aveva quasi riso. “Stone! Stephen Lief? Ma dai.”

      “No, dico sul serio,” aveva detto.

      Era disteso sul fianco. Il suo corpo nudo era magro ma duro come la roccia, cesellato e coperto di cicatrici. Uno spesso bendaggio gli copriva la recente ferita da arma da fuoco – era modellato sul torso lungo il fianco sinistro. Le ferite varie non la disturbavano – lo rendevano più sexy, più pericoloso. Gli occhi azzurro scuro la osservavano dalle profondità del volto segnato alla Marlboro Man, con un mezzo sorriso malizioso sulle labbra.

      “Sei bellissimo, Stone. Come un’antica statua greca, uh, con una benda. Magari però i ragionamenti lasciali a me. Tu puoi adagiarti lì, a fare il bello.”

      “L’ho interrogato alla sua fattoria, in Florida,” disse Stone. “Gli ho chiesto che cosa sapesse su Jefferson Monroe e sui brogli elettorali. Lui è stato chiaro con me fin da subito. Ed è bravo con i cavalli. Delicato. Deve pur voler dire qualcosa.”

      “Lo terrò a mente,” disse Susan. “La prossima volta che cerco un cowboy.”

      Stone scosse la testa, ma continuò a sorridere. “Il paese è spaccato, Susan. Gli eventi recenti hanno peggiorato più che mai i sentimenti. Tu te la cavi ancora bene, ma il Congresso ha i rating di approvazione più bassi della storia americana. Se credi ai sondaggi, i politici, i talebani e la Chiesa di Satana hanno tutti un punteggio molto simile, in America. Gli avvocati, l’agenzia delle entrate e la Mafia italiana hanno numeri molto più alti.”

      “E lo dici perché…”

      “Perché ciò che vuole il popolo americano adesso è che destra e sinistra, liberali e conservatori, si uniscano un pochino e comincino ad agire per il bene del paese. Strade e ponti devono essere ricostruiti, il sistema ferroviario dovrebbe stare in un museo, le scuole pubbliche cadono a pezzi, e non costruiamo un nuovo aeroporto maggiore da quasi trent’anni. Siamo al trentaduesimo posto nella sanità, Susan. Siamo in basso. Possiamo davvero avere altri trentun paesi davanti a noi? Perché te lo dico, sono stato in giro per il mondo, e i paesi buoni finiscono al numero ventuno o ventidue. Questo ci mette dietro a un sacco di brutti paesi.”

      Sospirò. “Con un po’ di sostegno da parte dei conservatori, potremmo riuscire a far passare il mio pacchetto infrastrutture…”

      Lui le tamburellò con un dito sulla fronte. “Adesso stai usando la zucca. Lief ha passato in senato diciotto anni. Conosce il gioco meglio di chiunque altro.”

      “Pensavo che la politica non facesse per te,” disse lei.

      “Infatti.”

      Scosse la testa. “È quello che mi spaventa.”

      Lui si mosse verso di lei. “Non spaventarti. Te lo dico io che cosa fa per me.”

      “Dimmi.”

      “La fisicità,” disse. “Con una come te.”

      Adesso scacciò i ricordi, con il fantasma di un sorriso in volto. Si era alienata per un po’. Sul monitor, Stephen Lief si stava preparando per il giuramento. Si teneva

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