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destro dai giorni dell’esercito. David si girò a guardarlo, grossi occhi scuri malevoli, denti che si mordevano l’interno della guancia, come faceva quando era nervoso o distratto. Un tempo quell’uomo avrebbe ucciso nemici a mani nude, eppure in qualche modo pareva scusarsene, nel mentre. Pareva scusarsi anche adesso.

      “Per favore,” disse Yonatan. “Riporta all’ordine la stanza.”

      David scrollò le spalle. Andò al tavolo da conferenze e mandò a schiantare un pugno gigante sulla sua superficie.

      BUM!

      Non disse una parola, ma riportò di nuovo giù il pugno.

      BUM!

      E ancora. E ancora. E ancora. Ogni volta che il pugno atterrava, la stanza si faceva un po’ più silenziosa. Alla fine tutti gli uomini presenti si alzarono per guardare David Cohn, l’organizzatore e gendarme di Yonatan Stern, un uomo che nessuno di loro rispettava intellettualmente, ma anche che nessuno di loro avrebbe mai osato intralciare.

      Sollevò il pugno un’ultima volta, ma adesso la stanza era silenziosa. Si fermò a mezz’aria, come un martello. Poi fluttuò lentamente di nuovo sul fianco.

      “Grazie, David,” disse Yonatan. Guardò gli altri uomini presenti. “Signori, vorrei cominciare questa riunione. Quindi, per favore, prendete posto e ammaliatemi con il vostro acume.”

      Si guardò intorno. C’era Efraim Shavitz, sempre giovanile, dimostrava molto meno dei suoi anni. La gente lo chiamava il Modello. Era il direttore del Mossad. Indossava un costoso completo su misura e delle scarpe italiane di pelle nera lucidissime. Pareva che si stesse recando a un nightclub di Tel Aviv, e non che stesse attualmente supervisionando la distruzione del suo stesso popolo. In una stanza piena di sciatti intellettuali e uomini dell’esercito di un’età, Shavitz il dandy sembrava una specie di uccello esotico.

      Yonatan scosse la testa. Shavitz era uno degli uomini del suo predecessore. Yonatan se lo teneva lì perché gli era stato ben raccomandato e sembrava sapere quel che faceva. Fino a oggi.

      “Efraim, le tue stime, per cortesia.”

      Shavitz annuì. “Certamente.”

      Prese un telecomando dalla tasca della giacca e si voltò verso il grande schermo alla fine del tavolo. Istantaneamente apparve il video di un lancio missilistico da una piattaforma mobile verdastra.

      “Il Fateh-200 è arrivato in Libano. Sospettavamo che potesse essere il caso…”

      “Quando, lo sospettavate?” disse Yonatan.

      Shavitz lo guardò. “Prego?”

      “Quando sospettavate che Hezbollah avesse ottenuto il sistema d’arma Fateh-200? Quando? Io un rapporto del genere non l’ho mai letto, né qualcuno mi ha mai menzionato l’arrivo di un rapporto del genere. Ne ho sentito parlare per la prima volta quando dei missili a lungo raggio altamente esplosivi hanno cominciato ad abbattersi su edifici residenziali di Tel Aviv.”

      Ci fu un lungo silenzio trascinato. Gli altri uomini presenti osservavano, alcuni Yonatan Stern, altri Efraim Shavitz, alcuni la tavola che avevano davanti.

      “In ogni caso, ce li hanno,” disse Shavitz.

      Yonatan annuì. “Sì, ce li hanno. Ora, a proposito dell’Iran… loro che cos’hanno?”

      Shavitz indicò Yonatan. “Non confonda l’acquisizione da parte di Hezbollah di potenti armi convenzionali con la minaccia nucleare iraniana, Yonatan. Non lo faccia. Le abbiamo detto che gli iraniani stavano lavorando su missili nucleari. Conosciamo le ubicazioni sospette. Conosciamo le persone coinvolte. Abbiamo un’idea del numero di testate. Viene avvertito di questi pericoli da anni. Abbiamo perso molti buoni uomini per ottenere queste informazioni. Che lei non abbia agito non è colpa mia, né del Mossad.”

      “Ci sono considerazioni politiche,” disse Yonatan.

      Shavitz scosse il capo. “Questo non è il mio dipartimento. Ora, crediamo che gli iraniani possano avere almeno quattordici testate, nascoste in tre luoghi, e probabilmente ben sottoterra. Potrebbero non averne per niente. Potrebbe essere una menzogna. Ma non più di quattordici.”

      “E se ce le hanno, tutte e quattordici?”

      Shavitz scrollò le spalle. Gli era scivolato fuori posto un capello, sulla fronte, molto strano per lui. Avrebbe fatto meglio a pettinarsi prima di presentarsi al nightclub. “E riescono a lanciarle?”

      Yonatan annuì. “Sì.”

      “Verremo annientati. Semplicissimo.”

      “Che opzioni abbiamo?”

      “Molte poche,” disse Shavitz. “Tutti i presenti già sanno quali sono. Tutti qui conoscono bene le nostre capacità missilistiche, nucleari e convenzionali, e della nostra forza aerea. Possiamo lanciare un massiccio attacco preventivo, al massimo, contro tutti i siti missilistici noti iraniani e siriani, e contro tutte le basi aeree iraniane. Se agiamo con impegno totale, e con tutte le nostre forze in perfetto accordo, possiamo distruggere totalmente le capacità militari iraniane e siriane, e riportare la società civile iraniana ai secoli bui. Chi tra i presenti possiede qualche nozione politica, non ha bisogno che gli dica quale sarebbe il contraccolpo mondiale.”

      “E un attacco minore?”

      Shavitz scosse la testa. “Per cosa? Qualsiasi attacco che conservi le capacità missilistiche dell’Iran, con aerei da combattimento o bombardieri in aria, o che lasci anche un solo missile nucleare operativo, per noi implicherà il disastro. Mentre alcuni di noi dormivano, primo ministro, o premiavano i nostri amici con contratti governativi, gli iraniani lavoravano come termiti, costruendo un arsenale missilistico convenzionale quasi incredibilmente resistente, e tutto con noi in mente.

      “Il Fajr-3, con guida di precisione e veicoli di rientro multipli – quasi impossibile da abbattere. Il programma Shahab-3, con missili sufficienti, potenza di fuoco sufficiente, e portata tale da bombardare a tappeto ogni centimetro quadrato di Israele. I sistemi Ghadr-110, Ashoura, Sejjil e Bina, e tutti possono raggiungerci, con migliaia di proiettili e testate individuali. E, pur se difficilmente pare pressante al momento, stanno ancora lavorando sul lanciatore spaziale Simorgh, che è sotto test e che possiamo aspettarci di vedere operativo nel giro di un anno. Una volta approntato quel sistema…”

      Shavitz sospirò. Il resto della stanza era in silenzio.

      “E i nostri sistemi di rifugio?”

      Shavitz annuì. “Certo. Presumendo che gli iraniani stiano bluffando e che non abbiano armi nucleari, possiamo dire con sicurezza che, dovessero lanciarci addosso un attacco maggiore, una percentuale del nostro popolo arriverebbe ai rifugi in tempo, alcuni rifugi terrebbero, e dopo, una manciata di sopravvissuti ne uscirebbe sana e salva. Ma non credo neanche per un minuto che ricostruirebbero. Sarebbero traumatizzati e inermi, lì a vagare per un cacchio di paesaggio lunare. Che cosa farebbe allora Hezbollah? O cosa farebbero i turchi? O i siriani? O i sauditi? Accorrerebbero per portare assistenza e conforto agli ultimi rimasugli della società israeliana? Non credo proprio.”

      Yonatan fece un respiro profondo. “Abbiamo altre opzioni?”

      Shavitz fece spallucce. “Solo una. L’idea che hanno ventilato gli americani. Inviare una piccola squadra di commando per scoprire se queste armi nucleari sono reali, e per determinare dove si trovino. Dopo intervengono per colpire quei punti con precisione, con la nostra partecipazione o meno. Se gli americani compiono un attacco limitato e preciso e distruggono solo le armi nucleari, gli iraniani potrebbero esitare a rispondere.”

      Era un’idea che Yonatan odiava. La odiava per tutte le infruttuose perdite di vite – la perdita di agenti preziosi e altamente addestrati già tornati da precedenti infiltrazioni in Iran. La odiava perché sarebbe stato costretto ad aspettare mentre gli agenti sparivano, senza sapere se sarebbero riapparsi e se avrebbero poi saputo qualcosa. A Yonatan la prospettiva di aspettare non piaceva – non quando l’orologio ticchettava e gli iraniani potevano lanciare il loro attacco massiccio in qualsiasi momento.

      Yonatan

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